“Indipendentemente da quale gioco giochiamo con l’ambiente che ci circonda, nella nostra mente si svolge sempre un altro gioco, un gioco interiore. E’ il risultato di questo gioco che determina la differenza tra successo e fallimento. -Tim Gallwey”

 

La storia del coaching parte da lontano. E parte dallo sport.
Parte dall’incontro e la collaborazione tra lo statunitense Timothy Gallwey e il britannico John Whitmore.

 

Nel 1971, Timothy decise di prendersi un anno sabbatico dagli studi e dedicarsi alla sua passione di insegnante di tennis: durante una lezione in campo, si rese conto che i suoi allievi utilizzavano in maniera “passiva” le sue istruzioni, come semplici comandi, e che questo interferiva significativamente sia con l’apprendimento che con la performance.
Si trattava di un “gioco interiore”, che occupava la mente degli allievi e che gli impediva di orientare efficacemente l’attenzione al compito.
Tim cominciò ad esplorare nuove modalità di insegnamento, stimolando i suoi allievi a focalizzare la mente sull’osservazione diretta e acritica della pallina, del corpo e della racchetta, in un modo che avrebbe aumentato l’apprendimento, la performance e il divertimento.
Si tratta quindi di modificare l’approccio alla realtà e orientare la propriamente in maniera specifica.

 

Nel 1974 scrisse un libro su questi temi – The Inner Game of Tennis – che in breve diventò un best seller i cui principi cominciano ad essere applicati anche in mondi diversi da quello strettamente sportivo.
Negli stessi anni, Sir John Whitmore, dopo svariati successi, abbandonò definitivamente la sua carriera come pilota d’auto da corsa e iniziò ad approfondire i temi legati alla psicologia dello sport, portando la propria esperienza e le sue competenze nel mondo aziendale. Si appassionò ai temi dell’apprendimento,
dello sviluppo del potenziale e del cambiamento organizzativo.

 

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È a questo punto, tra gli anni ’80 e ‘90, che i due si incontrarono e che attraverso i loro diversi contributi si diede il via ad una nuova strategia di pensiero in campo formativo e consulenziale.

Il termine “coaching” comincia a comparire nella letteratura italiana sulla formazione agli inizi del 2000, quando John Whitmore, pubblica il suo famoso libro Coaching; negli ultimi anni, il termine coaching viene spesso utilizzato in senso troppo ampio, a volte inappropriato, da società e consulenti che con slogan sul genere “se vuoi, puoi”, creano confusione e falsi miti.
Il coaching, al contrario, è uno strumento di relazione potente, che se usato adeguatamente, contribuisce in modo significativo al miglioramento della qualità della vita delle persone.

 

IN COSA CONSISTE IL COACHING?

 

Partirei dalla definizione di Whitmore, che identifi ca il coaching come quell’attività in grado di “liberare le potenzialità di una persona affinché riesca a portare al massimo il suo rendimento; aiutarla ad apprendere, piuttosto che impartirle insegnamenti”.
Risulta chiara la cornice: il coaching può esistere solo se esiste una relazione tra (almeno) due persone, nella quale uno dei due (il coach) sostiene l’altro (coachee) in un percorso di crescita personale, attraverso un approccio di scambio, di confronto, e non semplicemente direttivo.
Il coach adotta uno stile di rapporto orientato al dialogo, che permette al partner di diventare progressivamente più consapevole di se stesso, delle proprie caratteristiche personali, dei propri obiettivi e delle risorse che ha a disposizione e che sono necessarie per raggiungerli.

 

Potremmo intendere la figura del coach come quella di un facilitatore, che aiuta la persona a fare chiarezza sulla strada da percorrere e orientare in modo cosciente il proprio comportamento in funzione della meta finale.
Accanto alla consapevolezza, il coach deve poter stimolare nel partner la responsabilità, intesa come la convinzione di essere il primo e unico soggetto agente, parte attiva e imprescindibile del proprio cambiamento.
Un aspetto importante che mi preme sottolineare è che la principale qualità del coach deve essere il rispetto: sì, è vero, il coaching si è dimostrato nel tempo come uno strumento valido e trasversale, applicabile a svariati contesti (azienda, sport, sviluppo personale), ma non è detto che rappresenti indistintamente per ogni individuo la chiave del cambiamento o del raggiungimento dei propri obiettivi.

 

Un bravo coach deve quindi anche essere in grado di valutare attentamente questo aspetto, e decidere di iniziare un percorso solo con chi dimostra interesse e propensione, non cedendo alla sindrome del “io ti salverò” o alla tentazione di sostituirsi ad altre figure professionali qualificate (medico, psicologo, ecc).

 

Il rispetto si gioca anche ad un altro livello, cioè quello delle caratteristiche individuali del partner :

 

anche una volta stabilito che la persona è un buon candidato ad un percorso di coaching, è necessario procedere con attenzione alla definizione dell’intervento e al suo svolgersi, per mantenere la lucidità ed evitare che la relazione diventi il coacervo di aspettative e vissuti (magari negativi) reciproci.
In questo, esperienza, umiltà e ascolto partecipativo sono gli elementi che a mio parere permettono al coach di svolgere al meglio il proprio ruolo.

L’ascolto costituisce lo strumento fondamentale in qualsiasi tipo di relazione, ma assume un ruolo chiave laddove, come accade nel coaching, il punto di partenza e di arrivo è il medesimo, ovvero la persona che si ha di fronte.
È solo grazie ad una spiccata attitudine all’ascolto che il coach riesce in breve tempo a comprendere il proprio partner, a capire quali siano le sue potenzialità e i possibili ostacoli, a condurlo all’esplorazione di se stesso, e a permettergli quindi di ricercare in autonomia le proprie soluzioni.

 

COME SI STRUTTURA UN INTERVENTO DI COACHING?

 

Abbiamo detto che il coaching definisce una modalità di relazione, che ha lo scopo di promuovere nell’altro la consapevolezza, la responsabilità e la fiducia in se stessi (autostima).
Per riuscire in questo arduo compito, il coach deve certamente essere persona di elevata sensibilità e competenza socio-relazionale. Ma non basta: deve possedere anche un bagaglio di competenze tecniche specifiche: questo è il motivo per cui non è possibile (né consigliabile) improvvisarsi, ma al contrario occorre prepararsi con attenzione, studiare e potersi sperimentare, magari innanzitutto con se stessi.
Le tecniche a cui faccio riferimento si riferiscono essenzialmente ad un approccio comunicativo efficace, che permette al coach di esplorare la situazione per far emergere gli elementi principali su cui poter costruire l’intervento.

 

Il dialogo nel coaching è caratterizzato dall’uso delle domande, che consentono al coach di porre in evidenza le aree principali di lavoro, stimolando da un lato nel coach la partecipazione attiva e responsabile al proprio percorso di trasformazione e dall’altro evitando di cedere alla tentazione (comprensibile) di sostituirsi al proprio partner, fornendo un pacchetto di soluzioni già definito.

In fase iniziale l’obiettivo primario del coach è creare un rapporto di fiducia e mettere a fuoco la situazione: questa esplorazione è possibile solo grazie all’osservazione, che consente di eseguire una sorta di “anamnesi” della persona, delle sue caratteristiche principali, delle sue modalità comportamentali e, in ultimo, del motivo per cui ha richiesto l’intervento.
A questo scopo, il coach può predisporre ed utilizzare dei materiali di supporto, come test o questionari, che permettono di indagare con maggior precisione le potenzialità e la predisposizione del partner al percorso di coaching.
Il lavoro si struttura poi in alcune fasi principali, definite con l’acronimo GROW (Whitmore).

 

G = Goal

 

Attraverso l’uso delle domande, il coach stimola il partner a definire autonomamente l’obiettivo cui aspira. Si tratta di una fase molto delicata, che a cascata determina l’efficacia del percorso: l’obiettivo deve essere quanto più possibile preciso, facilmente verificabile, accessibile, realistico e raggiungibile in un tempo (medio-breve) determinato. Inoltre, dovrebbe essere espresso in maniera positiva (evitiamo i “non”!) e dovrebbe essere in linea con i valori della persona (questo garantisce un maggior coinvolgimento emotivo al risultato).

Talvolta non è semplice focalizzare le persone in questa direzione,coaching_pag.42 ma se l’obiettivo è definito in modo vago o generico, oppure se è troppo distante da realistiche aspettative, oppure ancora viene eccessivamente dilatato il tempo di realizzazione,
l’insuccesso è dietro l’angolo.

 

R = Reality

 

Una volta stabilito l’obiettivo, è necessario valutare insieme qual è la situazione attuale, in relazione all’obiettivo stesso: in questa fase potrebbero emergere difficoltà da parte del coachee, che fatica a mantenere uno sguardo oggettivo rispetto alle circostanze attuali. Il coach deve sostenerlo, ricercando un equilibrio tra gli aspetti tangibili (fatti) e i vissuti emotivi
soggettivi (opinoni) attraverso l’uso di domande che stimolano il feedback continuo.

 

O = Options

 

Questo è il momento in cui condurre il coachee a cambiare prospettiva, assumendo il ruolo di “osservatore di sé”: solo in questo modo è possibile considerare soluzioni alternative a quelle abitualmente messe in atto. Si tratta di un processo che stimola la creatività e la proattività della persona; il coach in questa fase deve dimostrarsi molto ricettivo, ma contemporaneamente conservare un approccio legato alla fattibilità delle azioni e quindi stimolando il partner ad orientarsi verso le soluzioni maggiormente praticabili.
È anche il momento dell’autovalutazione, in cui possono e devono emergere con chiarezza le risorse già a disposizione, quelle da poter mobilitare e gli eventuali ostacoli: importante qui è rendere consapevole la persona di eventuali credenze o convinzioni su di sé (ad esempio, bassa autostima o poca efficacia) che possono costituire una barriera alla messa in pratica delle soluzioni.

 

W = Will

 

In chiusura, è necessario testare quanto realmente il coachee intende coinvolgersi in prima persona nel processo e in quale modo intende farlo: lo scopo è trasformare tutto ciò che finora è stato discusso in decisioni sui comportamenti da mettere in atto, stabilendo un piano d’azione concreto e applicabile, sia in termini di opportunità, sia temporali.

 

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Il piano d’azione, poi, deve poter essere monitorato nella sua attuazione, in modo da poter eventualmente apportare modifiche o correzioni in base ai risultati ottenuti o alle difficoltà di realizzazione.

 

QUALI SONO I BENEFICI DEL COACHING?

 

Il coaching è uno strumento di crescita e sviluppo personale per entrambi i partecipanti: per il coachee rappresenta un’occasione concreta di intervento sulla propria vita, che gli consente di diventare maggiormente consapevole di sé, delle proprie potenzialità e di conquistare autonomia nella definizione e nella realizzazione dei propri desideri, incidendo così in modo positivo sulla percezione di autoefficacia; al coach, consente di migliorare nel tempo la capacità di comprendere se stesso e gli altri, attraverso relazioni umanamente significative che restituiscono un altrettanto senso di autoefficacia personale e elevati livelli di soddisfazione personale.

 

COME POSSO UTILIZZARE IL COACHING NELLA MIA PROFESSIONE?

 

Come avrete intuito il coaching è uno strumento prezioso, che può essere messo a frutto in contesti professionali diversi, nei quali le persone esprimono il desiderio di un miglioramento delle proprie performance o della propria qualità di vita.

 

L’allenamento e le prestazioni sportive sono un campo particolarmente proficuo per utilizzare questo strumento relazionale:

 

il trainer o l’allenatore hanno la possibilità ottenere informazioni preziose sulle leve motivazionali del proprio cliente e quindi di strutturare percorsi personalizzati che tengano conto non soltanto delle competenze strettamente legate al risultato “fisico”, ma anche e soprattutto ai cambiamenti psico-emotivi che derivano dall’ottenere un successo individuale.
Utilizzare il coaching nel rapporto professionale col cliente consente di instaurare una relazione basata sulla fiducia, che permette al cliente di sentirsi compreso e stimolato all’azione, raggiungendo i propri obiettivi.
Il cliente non potrà che essere soddisfatto dei suoi progressi e questo permetterà di fidelizzarlo.

 

 

Dott.ssa Alice Curzi
Psicologa clinica e del lavoro

 

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