“Brevi note su un fenomeno ad impatto socio-sanitario rilevante.
La vitamina D è stata individuata sin dal 1920 come fattore antirachitico nell’olio di fegato di merluzzo.”
L’osteoporosi è una patologia delle ossa che si presenta con una morbosità elevata dovuta all’allungamento dell’aspettativa di vita e quindi all’invecchiamento della popolazione.
L’osso, se lo valutiamo in termini di scienza dei materiali, è un particolare tessuto mineralizzato definibile come un “composito”, al pari del cemento armato: una matrice di fibre collagene disperse in una massa di minerali. Per molto tempo è stato considerato un organo “spento”, quando in realtà è un tessuto metabolicamente attivo in continua formazione e riassorbimento ad opera di due classi di cellule ossee la cui attività dipende da molti fattori.
Agli osteoblasti appartiene la linea cellulare che costruisce la matrice proteica, la unisce al calcio e dà all’organo la consueta durezza; agli osteoclasti appartiene l’altra linea cellulare che rimuove il calcio dalle ossa e la componente obsoleta favorendo il ricambio. Questo tipo di attività viene individuato come rimodellamento osseo. L’osso infatti, al di là delle sue qualità, è in grado a qualunque età di reagire alle forze meccaniche e, se si rompe, ripara se stesso riacquistando per quanto possibile la sua forma originaria. Non ultimo, il tessuto osseo è un serbatoio di ioni, contenendo più del 90% del calcio e del fosforo totale, che contribuiscono a vari livelli a numerose linee metaboliche del nostro organismo.
La crescita e il rimodellamento dello scheletro osseo dipendono sia da fattori locali, sia sistemici, dalla disponibilità degli elementi che lo compongono e, non ultimo, dal carico meccanico a cui è sottoposto. I principali ormoni che intervengono sul suo metabolismo sono essenzialmente il paratormone e la calcitonina, oltre alla fondamentale presenza della vitamina D. A questi si aggiungono, con diversi livelli di intervento, i glicorticoidi, l’insulina, il GH, la tiroxina, gli ormoni sessuali (testosterone ed estrogeni) e fattori locali come le prostaglandine e alcune citochine.
Il paratormone stimola gli osteoclasti a riassorbire l’osso e a dismettere quindi il calcio: si può dire che questa molecola abbia una funzione di mobilizzazione del minerale, anche se a livello del rene aumenta il riassorbimento dello stesso portando alla fine ad un aumento della calcemia. Dato che a sua volta diminuisce il riassorbimento del fosfato e quindi l’unione con il calcio, ne deriva che il prodotto calcio-fosforo diminuisce e si ha una mancata rideposizione del complesso minerale nell’osso.
La calcitonina ha una funzione modulatrice in quanto risponde sia alle variazioni temporanee della calcemia durante e subito dopo i pasti, allo scopo di prevenire una dannosa ipercalcemia e la conseguente ipercalciuria, sia quella di proteggere lo scheletro da una eccessiva mobilizzazione del calcio attraverso una potente inibizione degli osteoclasti. Insomma, favorisce il mantenimento della matrice minerale, interpretando il concetto omeostatico del rimodellamento osseo.
La vitamina D è stata individuata sin dal 1920 come fattore antirachitico nell’olio di fegato di merluzzo. Essa si produce sia a livello cutaneo con la trasformazione del deidrocolesterolo sotto l’azione dei raggi ultravioletti solari, sia attraverso l’assorbimento intestinale dei nutrienti. Una volta nel plasma, viene elaborata sia a livello dei mitocondri renali sia a livello dei microsomi epatici trasformandosi in metaboliti attivi.
Tutta questa catena metabolica ha la funzione di contribuire alla deposizione e al mantenimento del calcio nelle ossa, specialmente durante il periodo della normale crescita, così importante nel bambino e nell’adolescente.
La massa ossea raggiunge il picco attorno all’età di 35 anni e si mantiene costante nella donna sino alla menopausa dove, cadendo bruscamente gli ormoni estrogeni, inizia la sua degradazione. Non dobbiamo dimenticare che anche l’uomo, pur dalla settima decade in poi, subisce lo stesso tipo di trasformazione sin tanto che dopo l’ottava decade di vita le due curve tendono ad avvicinarsi.
Come dicevamo, la massa ossea diminuisce con l’età: vengono perduti sia l’osso corticale che si trova distalmente alle articolazioni, sia l’osso trabecolare che è invece prossimale alle articolazioni stesse. La perdita di calcio porta ad una diminuzione della matrice con assottigliamento dello spessore corticale e ad un aumento della porosità trabecolare. Il meccanismo non è immediato e infatti c’è un periodo di transizione in cui la percentuale di calcio non è francamente patologica e si definisce come fase osteopenica, che precede quella francamente patologica, cioè l’osteoporotica.
Come qualsiasi altro materiale, la perdita nella propria struttura porta ad un indebolimento globale: le trabecole possono subire delle microfratture e la diminuita capacità di rimodellamento rallenta o impedisce la loro riparazione.
La corticale a sua volta perde la capacità fisica di resistere alle forze di taglio e quindi ne risente sia la durezza sia l’elasticità: il punto di rottura diventa piuttosto basso e la struttura può cedere con fratture dovute anche a microtraumi.
Concludiamo queste brevi riflessioni rilevando come l’osteoporosi abbia un costo sociale elevatissimo perché è causa di fratture importanti nelle persone anziane: le fratture vertebrali e specialmente quella, assai temuta, del femore hanno un indice di invalidità elevatissimo.
Sono dolorose, comportano interventi sia chirurgici che non dal costo medico elevato, e specialmente riducono l’autonomia del soggetto con la conseguente ricaduta sulla qualità della vita globale. I mezzi terapeutici sono differenti e si avvalgono di farmaci che contrastano la perdita di calcio dalle ossa, la somministrazione di vitamina D e la supplementazione alimentare dello calcio stesso.
Altro elemento importante è l’attività fisica, che riesce a stimolare, attraverso un aumento delle vibrazioni lungo le linee di forza delle ossa lunghe, il mantenimento del calcio nella struttura dell’organo. Tutto questo conduce però anche al grande concetto della prevenzione della malattia che va condotta non da anziani bensì quando si è ancora giovani, facendo sì che la “bone density” sia di elevata qualità nell’occasione del picco osseo, di modo che il mantenimento dello stesso sia più lungo nel tempo e quantitativamente si opponga in termini temporali alla dismissione del calcio.
Insomma, corretta alimentazione, attività fisica e, si spera favorevole, genetica contribuiscono al mantenimento della salute del nostro apparato osseo. Per saperne di più potete leggere il volume Osteoporosi, della Mayo Clinic, pubblicato dalle Edizioni Sporting Club Leonardo da Vinci, Milano.
Silvano Busin
Direttore Scientifico ISSA Europe
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