Ci sono calorie “vuote”, calorie “piene”, calorie “buone”!? Quante calorie avrò mangiato? Quante ne brucio facendo questo esercizio? Le calorie sono tutte uguali ? Mi fai una dieta da 1400 calorie? Sono solo alcune delle domande che si ripetono in palestra, ai corsi, a tavola, sulle pagine dei “sacri testi”…facciamo chiarezza. Prima cosa sgombriamo il campo dai falsi miti.
Le cellule del corpo necessitano di ENERGIA per svolgere funzioni legate alla propria sopravvivenza e tutta l’energia utilizzata deriva dall’assunzione di CIBO. Quella in ENTRATA è contenuta negli ALIMENTI ingeriti: questa viene immagazzinata nei legami chimici tra gli atomi che costituiscono le molecole dei NUTRIENTI e, rilasciata quando queste molecole sono digerite/assorbite
nell’organismo. Le cellule “conservano” parte dell’energia nei legami altamente energetici dell’ATP (gruppi fosfato dell’Adenosin-Tri-Fosfato), o la utilizzano immediatamente per svolgere processi biologici. L’energia in USCITA o SPESA ENERGETICA è dovuta al LAVORO ESTERNO (contrazione muscolare per tutti i “movimenti meccanici”) e al LAVORO INTERNO (respirazione, circolazione sanguigna, contrazione muscolare diversa da quella per compiere lavoro, trasporti cellulari, sintesi cellulari per riparazioni e crescita), in sintesi il costo metabolico della vita. Per la 1^ LEGGE DELLA TERMODINAMICA l’energia “non può essere né creata né distrutta”, ma solo trasformata da una “forma” all’altra. Quindi, non tutta l’energia contenuta nelle molecole dei MACRONUTRIENTI dei cibi, viene utilizzata per compiere LAVORO BIOLOGICO.
La maggior parte viene trasformata in energia termica o CALORE. Durante i processi biochimici solo il 50% di questa energia è trasferita all’ATP, mentre il restante 50% è persa immediatamente sotto forma di calore. Durante l’utilizzo cellulare di ATP, un altro 25% dell’energia viene dissipata in energia termica. Non essendo il corpo umano una macchina termica, non è in grado di riconvertire il calore in energia, per cui non più del 25% dell’energia proveniente dagli alimenti può essere utilizzata per compiere una qualche forma di “lavoro” dal corpo, mentre il 75% viene perso in calore. Buona parte di questa “perdita” energetica viene utilizzata per mantenere costante la TEMPERATURA CORPOREA (in media di 36,7°C).
La velocità con cui l’energia viene utilizzata dal corpo durante il lavoro, sia esterno sia interno, viene chiamata VELOCITA’ METABOLICA (= Consumo Energetico / Unità di tempo) e varia in relazione a numerosi fattori (tipo di esercizio, ansia e stress, orari di assunzione del cibo, situazione ormonale e di composizione corporea, ecc.) Poiché la maggior parte dell’energia utilizzata dall’organismo alla fine è trasformata in CALORE, la VELOCITA’ METABOLICA è espressa normalmente in termini di velocità di produzione di calore, ovvero KILOCALORIE per ORA (KCal/h). Da qui l’unità termica usata per la velocità metabolica, ovvero la CALORIA che, nella definizione fisica classica è la quantità di calore necessario per innalzare la temperatura di 1 g di acqua di 1° C. Ma è un’unità di misura troppo piccola in riferimento al corpo umano, per questo convenzionalmente si usa la KILOCALORIA o grande caloria che corrisponde a 1000 calorie (piccole calorie). Quando i nutrizionisti e i tecnici parlano di “calorie” nel quantificare il contenuto energetico de vari alimenti o la spesa energetica delle varie tipologie di esercizio, parlano in realtà di KILOCALORIE (KCal).
Una mitologia matematica che resiste da anni è quella secondo la quale “L’ENERGIA IN ENTRATA DEVE ESSERE UGUALE ALL’ENERGIA IN USCITA PERCHE’ SIA MANTENUTO
UN BILANCIO ENERGETICO” .Con tre semplicistiche possibilità di calcolo, quindi di “dieta” e di risultati attesi sul peso corporeo, sentiamo parlare di BILANCIO ENERGETICO positivo, negativo, neutro o in equilibrio (alias dieta ipercalorica, ipocalorica, normo-calorica). Questo è stato ed è, salvo poche eccezioni, il limite della BIOCHIMICA DIGESTIVA, che va sicuramente conosciuta ma non applicata come dogma matematico. I ricercatori hanno chiarito ogni passaggio biochimico della digestione: enzimi, reazioni, trasporti di membrana, mutamenti del ph, assorbimenti mucosali, passaggi nella parte intestinale, concentrazioni minerali, ecc. Ma la conoscenza di questo argomento, approfondita e raffinatissima, riguarda soprattutto i NUTRIENTI, non i CIBI.
Per fare un esempio: si conosce a livello infinitesimale la digestione delle PROTEINE (aspetto chimico) non quello della CARNE (aspetto fisico) (Johnson 1994; Sith e Morton 2001). Detto questo, anche la BIOFISICA DELLA NUTRIZIONE, richiede attenzione e la sua conoscenza è basilare per comprendere certi fenomeni finora “inspiegati”, che hanno portato al fallimento pressoché totale delle “diete”, conteggiate seguendo i valori calorici di W. O. Atwater (1844): 4 KCal/g per carboidrati e proteine assunte e 9 KCal/g per i lipidi ingeriti con l’alimentazione giornaliera.
La regola del 4-4-9 di Atwater, innovativa per quegli anni, è in realtà una convenzione che da oltre un secolo determina il conteggio del Valore Energetico dei cibi, una stima approssimativa tutt’ora utilizzata ma che in realtà non può determinare direttamente la quantità di energia rilasciata perché i vari alimenti, una volta ingeriti, sono strutture molto più complesse (boli tridimensionali). Atwater sapeva quanta energia forniva ciascuno dei 3 macronutrienti principali, in che misura ognuno di essi era all’incirca presente in un cibo e in che misura veniva utilizzato/ espulso dall’organismo. Non tenne conto delle differenze all’interno di ciascun macronutriente. Da tempo gli studiosi si sono accorti dei limiti che presenta il sistema dell’inventore della “bomba calorimetrica”. Si sa per esempio, che il valore energetico delle proteine è variabile: quelle delle uova forniscono 4,36 Kcal/g mentre quelle del riso integrale solo 3,41 per grammo. Inoltre Atwater partiva dal presupposto che tutto l’AZOTO presente in un alimento facesse parte di una proteina e che tutte le proteine fossero costituite dal 16% di azoto. Ma oggi sappiamo che quest’ultimo può essere presente anche in altre molecole (aminoacidi non proteici, acidi nucleici, sostanze non digeribili) e che alcune proteine presentano percentuali di N maggiori o minori del 16%. All’alcol lo stesso studioso assegnò un valore di 7 KCal per grammo.
Per la classe degli zuccheri semplici (monosaccaridi) sono stati proposti negli anni aggiustamenti ai fattori di conversione calorica e per le FIBRE ALIMENTARI (o polisaccaridi
non-amidacei), sappiamo che hanno un valore di molto inferiore alle 4 KCal/g: 2 KCal per grammo. Il sistema di calcolo è stato poi modificato tenendo conto anche della dispersione di energia dovuta alla produzione di urina e gas (Southgate e Durnin 1970; Southgate 1981). Nonostante l’approccio biochimico moderno sia molto più preciso, la maggior parte dei nutrizionisti continua ad utilizzare il sistema generico. Sui “FATTORI GENERALI di Atwater”, sistema semplice e pratico, si basa tutt’ora il sistema di ETICHETTATURA DEI CIBI nel mondo occidentale.
Lo stesso sistema continua a fornire le basi di calcolo per quantificare energeticamente una normale ”dieta” basata sui CIBI COTTI (alta densità calorica). Un problema di questi calcoli riguarda la valutazione nutrizionale dei CIBI A BASSA DIGERIBILITA’ (bassa densità calorica), come i CIBI CRUDI o contenenti farina integrale a grana grossa. Atwater infatti non riconobbe a suo tempo alla DIGESTIONE un costo metabolico perché non lo considerava un processo dispendioso. Invece sappiamo che quando mangiamo, il nostro tasso metabolico si innalza e, in media, l’aumento massimo per l’essere umano è del 25% e a seconda del tipo di cibo può aumentare o ridursi (Secor 2009).
Atwater pensava che gli esseri umani riuscissero ad usare tutta l’energia contenuta in un cibo. Ma gli alimenti nel corpo umano NON SONO SOTTOPOSTI A COMBUSTIONE (anche se si utilizza il termine “ho bruciato”) ma a motilità, secrezione, DIGESTIONE e ASSIMILAZIONE. Il “prezzo” da pagare per la digestione varia secondo il nutriente: digerire le proteine costa di più rispetto ai carboidrati, mentre il “costo” digestivo più basso è quello dei grassi. I costi di digestione, inoltre, risultano più alti per i cibi più resistenti o più duri rispetto a quelli con consistenza più tenera, così come per i cibi costituiti da particelle più grandi rispetto a quelli con particelle più piccole e sottili, ma anche per i cibi consumati in un unico pasto sostanzioso piuttosto che in diversi pasti più leggeri. E per i cibi consumati freddi piuttosto che caldi (Sims e Danforth 1987; Secor 2009; Heaton, Marcus, Emmett e Bolton 1988).
Anche il fattore individuale gioca un ruolo importante: i soggetti più magri tendono ad avere costi digestivi più alti rispetto ai soggetti in forte sovrappeso. Non è chiaro però se l’obesità comporti un abbassamento del tasso metabolico digestivo o ne sia una conseguenza. Il paragone con altre specie viventi prova che noi umani “paghiamo” un prezzo più basso per la digestione, probabilmente dovuto al fatto che ci alimentiamo sostanzialmente con cibi cotti e che ci siamo “adattati” a questo nell’evoluzione (R.Wrangham 2011 e 2014).
Altro limite del ragionamento originale di Awater fu partire dal presupposto che la percentuale di cibo DIGERITO sia sempre costante a prescindere dal fatto che l’alimento si presenti LIQUIDO o SOLIDO, abbia un elevato o basso contenuto di FIBRE (o rientri in un pasto ad alto o minimo contenuto di fibre) oppure sia CRUDO o COTTO. Invece il grado di digeribilità di un cereale, per esempio, dipende da quanto finemente la farina viene macinata: dal 100% di una farina finissima ad un 70% di una grossolanamente lavorata (Merrill e Watt 1955, sistema di Atwater basato su valori specifici di digeribilità).
LA DIGERIBILITA’ di uno stesso cibo varia secondo il contesto in cui viene consumato, così la digeribilità delle proteine è più bassa se fanno parte di un alimento ad alto contenuto di fibre. Per i CIBI CRUDI ci sono ancora poche informazioni ma è sicuro che vari gradi di cottura, fino ad arrivare all’assenza di cottura, influenzino la % di cibo che viene digerito. Sono pochissimi gli studi che utilizzano l’unico dato appropriato in questo caso, ovvero quello della DIGERIBILITA’ ILEALE. Questi si basano su campioni di cibo che risultano inutilizzati nella parte terminale dell’intestino tenue piuttosto che su quanto “espulso” dal corpo. Se una proteina raggiunge l’ILEO non digerita, risulta da un punto di vista metabolico, inutile al soggetto che l’ha ingerita, poiché nell’intestino CRASSO i batteri/protozoi la digerirebbero solo a proprio vantaggio (Rutherfurd e Moughan 1998).
La digeribilità ileale dell’amido cotto, per esempio, va dall’84 al 95% (gelatinizzazione) mentre quella dell’amido crudo si attesta tra il 48 e il 71 %; la cottura permette un utilizzo “efficiente” di questo cibo, mentre crudo diventa “amido resistente” e contribuisce al dimagrimento a volte eccessivo cui vanno incontro i crudisti (Noah, Guillon et al. 1998 Livesey 1995; Englyst e Cummings 1987; Carmody e Wrangham 2009). Chiaro che la cottura aumenta immancabilmente l’IG (Indice Glicemico) dei cibi amidacei (Brand-Miller 2005).
Gli effetti della cottura sulle PROTEINE è ancora oggi oggetto di dibattito tra studiosi: D. Jenkis ritiene che riduca la digeribilità (Carmody e Wrangham 2009) mentre secondo altri ha un effetto positivo o nullo. Studi recenti sulla digestione delle uova dimostrano che le proteine cotte vengono digerite in modo più completo di quelle crude: 91-94% di digestione proteica per le uova cotte, 51-65% per le proteine delle uova crude (Evenepoel, Geypens e al. 1998 e 199; McGee 2004; Wandsnider 1997; Davies, Line Pacifi ci 1987).
Il fattore decisivo per una migliore digestione è la DENATURAZIONE delle proteine contenute negli alimenti, un processo indotto dal calore: si verifi ca quando i “legami interni” della molecola proteica si indeboliscono e “si aprono” divenendo più esposti agli enzimi proteolitici quindi più digeribili. Altri fattori favoriscono la denaturazione proteica: acidità (marinatura, aceto, succo di limone), salatura (NaCl), essicatura (Johnson 2001; King 2000; Sizer e Whitney 2006; Gaman e Sherrington 1996), ma anche i “semplici” procedimenti di sminuzzamento,
tritatura, macinazione, spremitura, frollatura, fermentazione: tutte azioni fatte dall’uomo, durante l’evoluzione, sua e del contestuale migliorato consumo del cibo (Lawrie 1991; Oka e al. 2003; Boback, Cox et al. 2007).
“Anticamente” il problema era avere più energia a disposizione a parità di cibo ingerito, quindi più calorie a disposizione per lo sviluppo in genere, soprattutto del cervello a discapito dell’apparato digerente (TEORIA DEL BILANCIAMENTO ENERGETICO ed “Ipotesi del tessuto costoso” : Aiello e Wheeler 1995; Fish e Lockwood 2003; Hladik et al. 1999; Leonard et al. 2007). “Il cibo cotto era migliore del cibo crudo perché la vita durante l’evoluzione è stata essenzialmente una questione di energia” (Ellison 2001; Williams et al. 2002; Wrangham et al. 2007).
Gli effetti negativi della cottura (perdite energetiche per gocciolamento, riduzione delle vitamine, produzione di compositi indigeribili e potenzialmente tossici come i prodotti di Maillard) che oggi tanto ci interessano a livello salutistico, sono stati minimali per l’evoluzione rispetto agli indubbi vantaggi energetici. Oggi, chiaramente, non abbiamo più bisogno di una maggior assimilazione di energia dal cibo cotto, abbiamo semmai il problema contrario. Facciamo un esempio: per l’uomo primitivo, mangiare un alimento vegetale con MENO fibre indigeribili voleva dire mettere a disposizione per l’organismo più amido assimilabile, quindi più energia, quindi più probabilità di sopravvivere. Meglio allora mangiare tuberi che radici e foglie; meglio ancora cuocerli.
Per l’uomo moderno industrializzato, sommerso da alimenti raffinati e costruiti serve invece l’esatto contrario: inserire cibi con più fibre, crudi, meno assimilabili o assimilabili con tempi più lunghi, per ripristinare un equilibro “onnivoro” crudo/cotto più salutare. Pertanto, il CONTEGGIO CALORICO si può continuare a fare, ma in una alimentazione per la salute e l’efficienza fisica ha poco senso.
Continuare a basarsi su misure facilmente quantificabili ma fisiologicamente imprecise ci porta ad approssimazioni che hanno pure poco senso. Meglio ragionare sulla fisica dei cibi, sulle tecniche di lavorazione, sull’aspetto ormonale dell’essere umano moderno nonché sul “timing” di introduzione (ora del giorno) dei vari alimenti/macronutrienti. Cercare di ritornare con logica, ove possibile nella pratica quotidiana, a “CIBI VERI e NON A SOSTANZE NUTRITIVE” (Pollan 2007). Meglio una mela del succo di mela, meglio farine grossolanamente tritate piuttosto che polveri impalpabili, frutta raccolta negli orti piuttosto che di produzione estensiva “industriale”, uova vere di fattoria piuttosto che di “batteria”, e via discorrendo. E’ sicuro che soggetti che seguono una dieta costituita da cibi più teneri sono caratterizzati da un girovita più largo quindi da un tasso di mortalità più alto, perché ingrassiamo facilmente mangiando cibo che è “facile da digerire” (Muramaki, Sasaki et al. 2007; See, McGuire et al. 2007).
Se ci basiamo sulle ETICHETTE NUTRIZIONALI siamo erroneamente portati a pensare che introdurremo uno stesso numero di KCal da una determinata QUANTITA’ di MACRONUTRIENTI, indipendentemente dal modo in cui è stato preparato o consumato l’alimento. Grave errore: LE CALORIE NON DICONO TUTTO QUELLO CHE OCCORRE SAPERE. Come abbiamo detto l’organismo umano supera in una complessità multifattoriale il semplice conteggio fisico delle o sulla legge dell’isodinamica.
estremismi del crudismo o di diete simil-preistoriche poco fattibili per la media della popolazione. Una più bassa densità calorica, con una introduzione modulata sui ritmi ormonali fisiologici. Ad esempio, semplificando l’introduzione dei CARBOIDRATI/ZUCCHERI: tanti nella prima parte della giornata, medi a pranzo, pochi o nulli la sera. Dove il termine “tanto” “medio” “poco” va personalizzato su ognuno con accurate indagini di composizione corporea (essenzialmente la quantità di massa muscolare scheletrica, che è variabile fondamentale per la salute e l’ANTIAGING, così come la quantità/distribuzione dell’acqua corporea e del grasso corporeo) e sul soggettivo stile di vita. Con cibi veri, più naturali, poco lavorati, riconoscibili, familiari, “buoni”, emotivamente soddisfacenti