“C’è una domanda basica che dovrebbe navigare nella testa della donna fisicamente ambiziosa: perché glutei e braccia toniche rispondono sempre a un solo eterno spartito, cioè l’uso di sovraccarichi?“
La risposta, se fosse raccolta dal circo dei media, farebbe tabula rasa di quella folta anagrafe di metodi low-cost per rassodare: creme, integratori, alimenti dall’aura salvifica fino allo sfruttamento di stereotipi che sanno di muffa, come slanciare ripetutamente a pendolo l’arto inferiore per sconfiggere la (de)cadenza del gluteo, il sollevare con le braccia ad infinitum un peso confinato all’unità di misura dei grammi per chiudere con i corsi aerobici di gruppo e la loro vuota promessa di rompere le “larde” intese tra ali di pipistrello, maniglie dell’amore e generosi svasi sottombelicali dando nel contempo una verniciata di tonicità.
Eppure sarebbe facile cambiare passo. Partendo dalle stesse palestre, dove l’allenamento femminile è un concorso alla banalità.
Qua, nel peggiore dei casi le donne vengono ormeggiate per ore alle macchine cardiofitness (tappeti, bike, step, macchine ellittiche…) ai cui innegabili benefici sul piano cardiovascolare (se usate secondo scienza) viene aggiunto un potere che non hanno: quello di contribuire in maniera decisiva alla definizione di una silhouette muscolarmente compatta.
Spartito stonato che si ripete anche fuori dalla palestra, quando ci si accanisce sul lavoro aerobico lungo e lento (camminate, jogging…) sperando di ridisegnare il profilo di braccia e glutei.
Il grande gluteo, muscolo da “tonificare” per eccellenza, risponde bene a due tipi di allenamento:
1. alto carico e “bassa” velocità, come nello squat pesante (70-85% 1 RM ad esaurimento);
2. basso carico (peso corporeo) e alta velocità (salti, balzi ecc…).
Come lo allena la maggior parte delle donne?
Bassa velocità e basso carico con il risultato di alto stress articolare e poca efficacia sull’ipertrofia/tono muscolare.
L’industria delle macchine del cardiofitness, delle scarpe da running e degli accessori sul tema, ringraziano. E si impegnano in campagne che mantengano lo sbilanciamento di quel piano culturale storicamente già inclinato sull’ossessione per il lavoro aerobico come panacea di ogni male.
Nel migliore dei casi, quando la donna viene orientata all’uso dei pesi, si rischia di assistere ad estratti dal catalogo del dejà-vù. Leggere una scheda d’allenamento di una donna è spesso una cronaca di superstizioni che esonda da ogni rigo. Un sacello della ragione la cui epigrafe è scolpita nei caratteri della pochezza: “L’uomo si deve allenare con carichi alti, la donna con carichi bassi”. Pena una femminilità che resterebbe impigliata nei rovi della virilità pelosa e muscolarmente grottesca. Dismorfismo sessuale addio con i carichi elevati? È proprio il contrario, ci rimbrottano la fisiologia e l’esperienza con donne che si allenano senza le ubbie del sessismo sportivo. Le differenze tra uomo e donna ci sono ma, purtroppo per i corifei delle schede “rosa”, depongono tutte a favore di carichi elevati.
I motivi?
1. La donna, scarsa produttrice di testosterone (1/10 dell’uomo), deve contare solo sull’ormone della crescita (Gh) per avere braccia e glutei tonici.
Il cui potenziale si sprigiona solo sotto l’effetto di carichi elevati, pari al 70-85% del massimale. Mentre carichi inferiori o uguali al 60% di 1 RM deprimono il Gh rispetto al basale sia durante
l’allenamento, sia durante la fase di recupero (Vanhelder et al., 1984).
L’ipertrofia (o “tonificazione”, per evitare isterie) in risposta a certi carichi, con le dovute proporzioni, è una legge fisiologica valida anche quando il crine vira verso il bianco: funziona con la donna giovane quanto con l’ottuagenaria (Katch, Mc Ardle). Salvo controindicazioni di carattere medico.
Negli altri casi ogni sproloquio contro i presunti effetti mascolinizzanti dei pesi sono degni del ripostiglio dell’evitabile.
Avere un gluteo davvero tonico è frutto di un ordito complesso che intreccia segnali cellulari tra le cellule satelliti, il sistema immunitario, i fattori di crescita e gli ormoni, il consumo delle riserve energetiche muscolari (fosfati e glicogeno), segnalazioni dello stress meccanico sulle fibre muscolari e la risposta infiammatoria. Un’orchestra però guidata da un direttore supremo: il carico.
Tutte le valutazioni su quando inserire il carico, il volume e la frequenza di allenamento, i tempi di recupero, i limiti di un organismo in erosione muscolare, in ritenzione e infiammato non sono oggetto della nostra indagine. Almeno per oggi.
2. Carichi elevati e forti contrazioni muscolari sono la prima linea di difesa scheletrica contro le evasioni in massa di calcio. Si parla di osteoporosi, male che affligge la donna soprattutto in post menopausa. La salute ossea femminile migliora solo sotto il giogo del carico (70-85% di 1 RM, Singh 2000), sia in termini preventivi, massimizzando il picco di massa ossea nella pre-menopausa, sia nel mantenere la massa ossea in postmenopausa (Singh, 2000).
Si riduce così la possibilità di frattura, a patto che ci si alleni per almeno 4-6 mesi di fila (Graves e Franklin, 2001), da 1 a 3 volte a settimana (Singh 2000). Naturalmente, a costo di servire ovvietà, bisogna dire che per mantenere i risultati è necessario continuare a frequentare il lavoro con sovraccarichi.
Pena, il ritorno al disarmo scheletrico.
IN SINTESI, relegare le donne nell’empasse culturale dei movimenti infiniti a carico nullo o quasi resta la colonna sonora di un film vintage. Anche l’anziano/a può trarre beneficio dal carico come offensiva alla dittatura del tempo che dopo i 25-30 anni inizia un inesorabile decrescita del PIL muscolare spesso anticamera della sarcopenia.
Abbandonare la muscolatura e la forza allo strazio del tempo vuol dire che ad una certa età si farà fatica ad alzarsi da una sedia. In uno studio su 560 soggetti over 65 anni, la perdita di forza è risultata un fattore predittivo di mortalità indipendente ancor più importante della perdita di massa muscolare (Geriatrics & Gerontology International 2015). Che si tratti di forza o di massa muscolare, ciò che conta è sempre l’utilizzo di un carico (adeguato all’età).
Come il giovane, anche l’anziano deve sottoporre il muscolo ad un carico che lo “danneggi”. Solo così può avere luogo la cascata di eventi (produzione di CK, IDROSSIPROLINA, MGF, IGF-1, IGF-2, riattivazione e proliferazione delle cellule satellite, attivazione di Mtor, P70S6K…) che conferisce forza e volume alla massa muscolare.
L’allenamento con carichi elevati ha come target specifico le fibre di tipo II, quelle del volume e della forza e che l’allenamento aerobico non è in grado di mantenere.
Gli allenamenti di forza negli anziani possono essere svolti in totale sicurezza se ben programmati e possono produrre guadagni di massa muscolare e di forza comparabili con quelli ottenibili nei giovani (Luthi et al., Frontera, Fiatarone, Lexell, Bamman et al., Brose et al., Roth et al., Charette et al.)
In alcuni protocolli di allenamento con i pesi condotti su 60enni fino a 87enni e con carichi pari all’80% del massimale si sono registrati incrementi di forza fino al 178%.
Eppure l’immaginario collettivo del benessere non contempla ancora un anziano alle prese con manubri e bilancieri.
Capitolo creme e illusionismi assortiti
C’è poi un altro fronte dalla spaventosa potenza di fuoco mediatica e dalla magnetica carica di seduzione: quello delle creme “rassodanti” – “dimagranti”- “anticellulite”.
Come ignorare le sirene che praticano lo struscio con l’antico desiderio di avere risultati senza fatica? Sirene che hanno toccato la vetta della desolazione quando, recentemente, una nota marca ha catalogato la propria crema come farmaco per curare una malattia che non esiste: la cellulite. Sia fisiologia o patologia, “la cellulite non può essere trattata con una crema”.
Sono sempre e solo spot la cui trama comunicativa è una mescolanza furbina di falsità e superstizione, che avremmo voluto vedere chiusa nell’armadio del passato. Invece è uno spettacolo che non conosce soste o stanchezze: anno dopo anno, generazione dopo (de)generazione.
Orazio Paternò – CFT 1 ISSA
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