Cominciamo in questo numero un lungo viaggio all’interno dei meccanismi di senescenza degli organismi che ci condurrà fino alla prossima Convention ISSA, una serie di articoli in cui spero di riuscire a fare un po’ di chiarezza su uno dei fenomeni più temuti, ma al tempo stesso più affascinanti della biologia: l’invecchiamento.
Perché gli organismi pluricellulari invecchiano? Perché dopo una certa età sembra che i pluricellulari diventino via via meno efficienti nel riparare i danni e difendersi da parassiti e malattie? L’invecchiamento è un processo fisiologico e determinato nel ciclo vitale degli organismi, come il raggiungimento della maturità sessuale, oppure è un “effetto collaterale” di scelte biologiche proprie della specie?
E, infine, nel caso degli esseri umani, esistono markers che descrivano la progressione dei processi di senescenza e se sì, sono correlabili a variabili ambientali e stili di vita? Cominciamo dal concetto di invecchiamento: come già ho raccontato in precedenza, i fenomeni di senescenza non sono processi predeterminati in tutti gli organismi, come la comparsa dei colori nuziali in molte specie di uccelli al raggiungimento della maturità sessuale o l’età in cui un cucciolo cessa di prendere il latte e passa alla dieta solida. Anche perché, e questo è un fatto che molti ignorano, la maggior parte degli animali selvatici, semplicemente, non invecchia.
L’aspettativa di vita media di popolazione, per molte specie allo stato selvatico, è molto inferiore a quella nella quale individui appartenenti alla stessa specie, ma allevati in cattività, iniziano a mostrare i primi fenomeni di senescenza. Addirittura, la speranza di vita in natura di molte specie è molto più breve dell’età della menopausa, e tra poco vedremo perché questo parametro sia importante: un ratto selvatico ha una aspettativa di vita in natura che è pari a 6-10 mesi, un animale della stessa specie allevato in cattività arriva a vivere fino a tre anni, raggiungendo la menopausa attorno ai 18 mesi.
In questo senso, i biologi evoluzionisti reputano che i fenomeni di invecchiamento siano raramente sotto il controllo della selezione naturale in senso darwiniano: come può essere selezionata una caratteristica di un organismo vivente, se la maggior parte degli individui di una popolazione muore prima che tale caratteristica sia comparsa? A questa regola, paradossalmente, fanno eccezione proprio quegli organismi la cui morte in massa risulta essenziale per il completamento del ciclo vitale della specie stessa: sto parlando dei cosiddetti organismi semelpari, dal latino semel+pario, cioè tutti quegli organismi che investono tutte le energie in un solo evento riproduttivo, i cui esponenti più famosi sono salmoni e anguille.
In queste specie, il raggiungimento della maturità sessuale e il conseguente carico di androgeni ed estrogeni che ne accompagna l’arrivo, producono sconvolgimenti nella fisiologia di tale portata che l’animale, una volta compiuto l’enorme sforzo riproduttivo, muore nel giro di pochi giorni.
Nel salmone, la morte in massa degli adulti, a poca distanza dal luogo in cui le uova vengono deposte e la disponibilità di sostanza organica conseguente alla contemporanea decomposizione dei loro resti, sono peraltro indispensabili per produrre quei microorganismi che sono cibo per le larve appena schiuse, che comporranno la generazione successiva. In tutte le altre specie, compresa la nostra, invece l’invecchiamento sembra essere una sorta di “effetto collaterale” collegato alla “durata eccessiva” di un sistema complesso, che non era previsto continuasse a funzionare per tempi così lunghi.
In altri termini, l’evoluzione lavora sugli organismi viventi un po’ come fanno gli ingegneri aerospaziali quando progettano i piccoli robot che sono riusciti ad atterrare su Marte o sui primi asteroidi arrivati nel nostro Sistema Solare: queste piccole, complicatissime macchine sono progettate per arrivare intatte e funzionali al massimo sul luogo della missione, quindi per raccogliere dati e inviarli sulla Terra. La loro “durata di vita” non è determinata, ma è importante che esse restino “vive” almeno per il periodo strettamente necessario a svolgere la loro funzione: alcune di queste macchine, come molti di noi ricordano, sono riuscite a sopravvivere ben oltre tale data, continuando a trasmettere dati e muoversi tra i deserti di Marte, diventando man mano sempre meno efficienti e subendo un vero e proprio fenomeno di “invecchiamento”, che nessuno aveva potuto prevedere in anticipo.
In natura, così come i piccoli robot, gli organismi pluricellulari devono arrivare sani e nelle migliori condizioni possibili, all’età della riproduzione: una volta riprodottisi e passato il proprio DNA alla generazione successiva, per quanto riguarda la spietata legge dell’evoluzione, essi possono anche “rompersi” o “usurarsi lentamente”, ma nella maggior parte dei casi, ci penserà un predatore o un incidente di caccia a porre fine alla loro esistenza. Per questo, la senescenza non è un fenomeno così semplice da studiare.
È multifattoriale, è complesso, non è univoco e presenta molte differenze a seconda della genetica, dell’ambiente e degli stili di vita. Questo dovrebbe indurci a sperare, almeno per quanto riguarda noi esseri umani. Perché senescenza e invecchiamento possono essere gestiti.
Torniamo a noi umani. Uno dei fenomeni più studiati e collegati all’invecchiamento è la cosiddetta “fragilità geriatrica”, una sindrome caratterizzata da una serie di fenomeni degenerativi diversi, che a loro volta pertengono ad ambiti medici differenti, che spaziano dalla immunologia alla fisiologia.
Questa condizione è presente in proporzioni diverse da Paese a Paese in percentuali consistenti di persone di età superiore ai 65 anni ed è per questo ormai molto studiata, al punto che per essa sono stati sviluppati molti markers, che analizzano i vari ambiti nei quali possono svilupparsi problemi: se ricordate quanto detto sopra, siamo esattamente nella condizione del piccolo robot disperso su Marte, che nessun umano può più riparare: potrebbe rompersi per primo il sistema di trasmissione, oppure danneggiarsi la batteria solare, oppure ancora, ad essere danneggiato potrebbe essere il processore.
I più frequenti problemi che insorgono dopo i 65 anni e che sono correlati allo svilupparsi della sindrome di fragilità geriatrica spaziano dalla fragilità osteo-articolare alla stanchezza cronica, passando per la sarcopenìa e per la perdita di peso non intenzionale e per la cosiddetta senescenza immunitaria.
Gli approcci alla valutazione della fragilità nell’anziano furono essenzialmente due.
Fried et al. (2001) propose un modello chiamato “Frailty Phenotype” che, sulla base di screening a campione su campioni significativi di anziani cui vennero somministrati test di autovalutazione basati sulla presenza di uno o più markers di fragilità, mostrò che su un totale di 5 markers, la presenza di anche solo tre di essi, era predittiva dell’insorgenza di questa sindrome.
Questo primo approccio parte dal concetto di fondo che per la progressione da uno stato di buona salute dell’anziano fino a una diagnosi di fragilità sia necessario che vi sia una sommatoria di markers di fragilità, presenti in comorbidità.
Il “Frailty Index” o Indice di Fragilità venne invece sviluppato da Rockwood et al., i quali partirono dall’assunto che la condizione di fragilità geriatrica non fosse un processo degenerativo continuo, ma una sommatoria di eventi di degenerazione di funzionalità dell’organismo, nei quali OGNUNO di questi era trattato come evento singolo e predittivo di alterazione del valore dell’indice in relazione solo al parametro età.
In altri termini, anche uno solo dei markers, come uno stato infiammatorio severo o una sarcopenìa grave, sarebbe stato sufficiente da solo a spingere il paziente verso una condizione di fragilità.
Ma vediamo quali sono i principali markers che vengono presi in considerazione per la valutazione di entrambi gli indici di fragilità geriatrica, perché proprio a loro e alle loro complicate interazioni reciproche e con l’ambiente saranno dedicati i prossimi articoli: sto parlando di sarcopenìa, di processi infiammatori e di immunosenescenza.
Potremmo definirli i Tre Cavalieri Neri dell’Invecchiamento.
La sarcopenìa, a molti già nota nei suoi lineamenti generali proprio per la sua diffusione nella popolazione è universalmente ritenuta il più importante motore propulsivo della fragilità geriatrica, e gli studi che si sono assommati su tale condizione ne hanno parzialmente rimodellato la definizione. Una definizione attualmente accettata dalla comunità scientifica, quella di Cruz-Jentof (2010) definisce la sarcopenìa come “una sindrome caratterizzata da una perdita progressiva e generalizzata di massa muscolare scheletrica e di forza, con correlati clinici quali disabilità, peggioramento della qualità di vita e morte”.
E’ interessante notare come nella definizione di questa sindrome, ad oggi, non vengano presi in considerazione solo criteri clinici anatomici, come gli indici muscolo-scheletrici, ma anche e soprattutto parametri collegati alla forza e ad alcune prestazioni fisiche, due su tutte, la velocità di deambulazione e la forza della stretta di mano: secondo i criteri medici odierni, una velocità di deambulazione inferiore a 0.8m/s e una forza di pressione alla stretta di mano inferiore 30 kg per l’uomo e 20kg per la donna sono entrambi valori di soglia per una diagnosi di sarcopenìa.
Meno chiarezza c’è sui valori di soglia per quanto riguarda gli indici muscolo-scheletrici, che possono variare dai 7,23Kg/m²-8,87Kg/m² per l’uomo e i 5,45Kg/m²-6.42Kg/m² per la donna (Baumgarten et al. 2010, Cruz-Jentof et al. 2010). Il particolare interessante è che, da studi su campioni di anziani di età compresa tra i 70 ed i 79 anni, secondo Godpaster et al. (2009) il declino della massa muscolare e quello della forza sono correlati in modo non lineare: in particolare la forza sembrava declinare ad un tasso compreso tra lo 0.5 e il 2% annuo, mentre la massa veniva persa più lentamente, con un tasso medio compreso tra il 2-4% annuo.
Ancora più affascinanti sono i fenomeni infiammatori e la senescenza del sistema immunitario, entrambi marker strettamente correlati tra loro, più di quanto non lo siano con la sarcopenìa: esistono ormai numerosi studi che evidenziano come il malfunzionamento del sistema immunitario nei soggetti di età avanzata, sia essenzialmente correlato alla alterazione dei rapporti tra alcuni degli elementi figurati della serie bianca, i cosiddetti linfociti.
Alcune categorie di linfociti vengono prodotte in misura minore e le loro capacità di agglutinazione e di memoria immunitaria peggiorano con la senescenza del sistema immunitario, rendendo la risposta alle infezioni più lenta e meno efficiente, al tempo stesso, la funzione memoria peggiora, e ciò rende ragione della inefficiente risposta immunitaria alle profilassi vaccinali nei pazienti anziani.
Infine, lo stato infiammatorio dell’organismo, un terzo marker importante per la valutazione della progressione verso la fragilità geriatrica:
nei soggetti anziani spesso si nota uno stato di infiammazione generale dell’organismo che è significativamente diverso e maggiore rispetto allo stato infiammatorio di soggetti giovani: lo stato infiammatorio viene valutato dalla presenza ematica di una particolare classe di proteine prodotte dalle cellule, le citochine.
Le citochine sono una vasta categoria di proteine messaggere prodotte dalle cellule con effetto sia autocrino che paracrino ed endocrino: in parole povere possono modificare il comportamento sia della cellula che le ha emesse, sia delle popolazioni adiacenti, che dell’intero organismo. Studi sulle citochine infiammatorie, prodotte in condizioni fisiologiche dall’organismo durante il corso di una infezione, hanno mostrato che in particolare due di esse, Interleukina 1β e Interleukina 6, sono presenti in percentuali maggiori nei pazienti anziani e con un processo di senescenza immunitaria in corso: ciò a discapito delle interleuchine anti-infiammatorie, che risultano ridotte in percentuale.
Approfondiremo i legami tra sarcopenìa, senescenza immunitaria e infiammazione intese come tramite tra i processi di invecchiamento e stili di vita individuali nei prossimi articoli.
a cura di Simone Masin – M.Sc PhD M.ES – Università Bicocca di Milano
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