CITISINA E FUMO DI SIGARETTA

 

Risale ormai al 2014 la pubblicazione sul prestigioso New England Journal of Medicine la pubblicazione di alcuni ricercatori di Auckland, Nuova Zelanda, sull’efficacia del della citisina, un agonista parziale che lega il recettore nicotinico, isolato da una pianta il Cytisus Laburnum (noto come maggiociondolo) utilizzata per tentare la cessazione dal fumo di sigaretta che ha dimostrato che quasi raddoppia la probabilità di smettere di fumare a 6 mesi.

 

La fondazione Veronesi afferma che nei centri antiveleni viene citata fra le piante a cui prestare attenzione perché tossica se ingerita, ma la citisina, che se ne ricavava già nel XIX secolo, veniva usata per produrre medicamenti e sciroppi contro una vasta gamma di malanni, dalla tosse alla stitichezza.

 

È dagli anni sessanta, invece, che soprattutto nei paesi dell’Europa dell’est si è iniziato a studiarla nel contrasto al tabagismo. Tutto sarebbe partito dall’esperienza dei soldati russi che durante la seconda guerra mondiale, non disponendo di tabacco, fumavano foglie di maggiociondolo. Così, sono stati avviati i primi studi sulla citisina, sono arrivate conferme importanti.

 

La citisina agisce come agonista parziale della nicotina, con un meccanismo simile a quello di un altro farmaco antifumo, la vareniclina. Agisce sui recettori cerebrali della nicotina, “ingannandoli”, e aiutando a mitigare gli effetti dell’astinenza quando si smette di fumare e facilitando l’abbandono graduale delle sigarette.

 

Purtroppo ha effetti collaterali, tra i quali nausea e vomito, dato che si tratta di un alcaloide. In Italia è disponibile dal 2015 come preparato galenico, acquistabile in farmacia solo dietro prescrizione medica, sotto forma di compresse. Il suo costo, pertanto, è pari al 10-20 per cento di quello di altri farmaci utilizzati nel percorso di disassuefazione dal fumo.

 

 

Gli effetti positivi sono stati confermati nel 2019 anche da una sperimentazione diretta da Sara Trussardo con i colleghi delle strutture di Pneumologia e della Chirurgia toracica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Ai fumatori partecipanti è stato proposto un percorso che prevedeva l’uso della citisina in compresse per 40 giorni con il supporto telefonico. In un terzo dei casi l’approccio non ha funzionato, i fumatori non hanno smesso anche se hanno ridotto il numero di sigarette giornaliere.

 

Fra coloro che hanno smesso, invece, la percentuale di chi ha tenuto duro è stata del 59,2% a tre mesi, del 51,7% dei pazienti a sei mesi e del 46,7% a un anno, una percentuale definita “ottima” dai ricercatori. Il tutto verificato con il test del monossido di carbonio, che rivela in modo affidabile l’uso di sigarette.

 

Risulta strano che tale sostanza sia così poco conosciuta e se ne parli ancora meno: la letteratura scientifica è presente, la normativa di utilizzo pure, le motivazioni sociali appaiono elevatissime, eppure…

 

Questi studi dimostrano che essere supportati e sostenuti facilita un percorso difficile. Grazie al supporto farmacologico della citisina e al counseling telefonico, il desiderio compulsivo e i sintomi dell’astinenza da fumo si sono ridotti in modo significativo limitando il rischio di ricadute.

 

[Walker N, Howe C, Glover M, McRobbie H, Barnes J, Nosa V, Parag V, Bassett B, Bullen C. Cytisine versus nicotine for smoking cessation. N Engl J Med. 2014 Dec 18;371(25):2353-62.]

 


 

CURCUMINA E SINDROME METABOLICA

 

La curcumina è il componente attivo più studiato della curcuma che sembra avere in vitro un ampio spettro di attività farmacologiche: particolare attenzione si è data all’attività sulla sindrome metabolica.

 

Nel tessuto adiposo umano la curcumina ha dimostrato di diminuire la secrezione di adipochine, di interleuchina-6 (effetto infiammatorio); studi sono stati fatti sull’azione sul TNF (tumor necrosis factor) e sull’enzima 11-betaHSD122 la cui attività è in relazione con alte concentrazioni di cortisolo presenti nel tessuto adiposo.

 

Purtroppo la curcumina è una molecola scarsamente biodisponibile quando è assunta per via orale: in questi ultimi anni si sono cercate molecole che coniugate con la curcumina facilitassero l’assorbimento della stessa. Una di queste è stata la fosfatidilserina.

 

Una ricerca svolta da studiosi della Valleja® Research di Milano e pubblicata sul European Review for Medical and Pharmacological Sciences ha configurato ad randum due coorti di portatori di sindrome metabolica che venivano invitati a sottoporsi a regime nutrizionale controllato e all’assunzione di curcumina più fosfatidilserina, mentre il gruppo di controllo assumeva solo fosfatidilserina.

 

 

I soggetti sono stati controllati dopo 30 e 60 giorni e il gruppo che assumeva curcumina ha dimostrato una maggior perdita di peso corporeo, una perdita di massa grassa valutata con BIA e la diminuzione del girovita, statisticamente significativa rispetto al gruppo di controllo.

 

In entrambi i gruppi la tollerabilità alle sostanze è stata molto buona, anche se nel gruppo che assumeva solo fosfatidilserina non vi sono stati cambiamenti statisticamente significativi.

 

Gli autori, pur con tutte le cautele del caso, suggeriscono che la curcumina modulata in forma farmacologicamente biodisponibile sembra avere effetti positivi sulle persone portatrici di sindrome metabolica. Ulteriori studi andranno fatti per valutare meglio questi risultati.

 

[Di Pierro F, Bressan A, Ranaldi D, Rapacioli G, Giacomelli L, Bertuccioli A. Potential role of bioavailable curcumin in weight loss and omental adipose tissue decrease: preliminary data of a randomized, controlled trial in overweight people with metabolic syndrome. Preliminary study. Eur Rev Med Pharmacol Sci. 2015 Nov;19(21):4195-202.]

 


 

HPV VACCINAZIONE: PROTETTI ANCHE GLI UOMINI

 

Secondo quanto emerge da uno studio osservazionale retrospettivo pubblicato sulla rivista Lancet Infectious Diseases dall’università di Melbourne, la vaccinazione della popolazione femminile australiana contro il papilloma virus ha ridotto anche nella popolazione maschile la presenza di quattro tipi di HPV presi di mira dal vaccino quadrivalente.

 

 

I ricercatori australiani hanno esaminato le tendenze annuali dei genotipi HPV correlati al vaccino in 1466 giovani uomini sessualmente attivi risultati positivi al tampone uretrale per Chlamydia trachomatis tra il 2004 e il 2015.

 

Dall’analisi è emersa una riduzione sostanziale dei genotipi contro i quali è stato disegnato il vaccino quadrivalente in uso in Australia (i genotipi 11, 12, 16 e 18) accompagnata però da un aumento di prevalenza di quei genotipi ad alto rischio che non sono bersaglio del vaccino.

 

E’ stata però evidenziata come l’elevata copertura ottenuta dalla vaccinazione femminile abbia ridotto la presenza dei quattro sierotipi di virus anche tra gli uomini non vaccinati. Ciò suggerisce l’acquisizione di una immunità di gregge anche nel genere maschile grazie al grande numero di donne vaccinate.

 

La buona entità di questa riduzione porta a pensare che i tumori maligni associati ai genotipi 16 e 18 negli uomini saranno destinati ad un calo sostanziale anche in quei paesi che prevedono programmi di vaccinazione di massa.

 

Ciò viene confermato anche dai ricercatori del National Cancer Institute di Bethesda in Maryland in un articolo pubblicato su Preventive Medicine che ricordano come il papilloma virusprovoca tumori ai genitali e all’ano in gran parte legati a contatti sessuali avuti tra adolescenti e giovani adulti non vaccinati: ridurre l’incidenza di queste neoplasie è importante e sottolinea l’importanza del vaccino contro l’HPV.

 

Inoltre va segnalato che recentemente la FDA ha autorizzato l’utilizzo del Gardasil 9, un nuovo vaccino che sembra ridurre del 97,4% le infezioni e le malattie provocate da nove genotipi del HPV con la stessa efficacia e sicurezza del quadrivalente.

 

[Chow EPF, Machalek DA, Tabrizi SN, Danielewski JA, Fehler G, Bradshaw CS, Garland SM, Chen MY, Fairley CK. Quadrivalent vaccine-targeted human papillomavirus genotypes in heterosexual men after the Australian female human papillomavirus vaccination programme: a retrospective observational study. Lancet Infect Dis. 2017 Jan;17(1):68-77.]

 

[Castle PE, Xie X, Xue X, Poitras NE, Lorey TS, Kinney WK, Wentzensen N, Strickler HD, Burger EA, Schiffman M. Impact of human papillomavirus vaccination on the clinical meaning of cervical screening results. Prev Med. 2019 Jan;118:44-50]

 


 

REVIEW SCIENTIFICA SUGLI INTEGRATORI ALIMENTARI E TERAPIA

 

E’ stata pubblicata per i tipi della casa Editrice Edra di Milano la prima (l’edizione successiva è in corso di elaborazione) Review scientifica sugli integratori alimentari, frutto di un lungo periodo di lavoro di un team tra coloro che sono giudicati i maggiori esperti italiani.

 

Essi sono: Dott. ssa Franca Marangoni, Nutrition Foundation of ltaly; Prof. Giancarlo Cravotto, Dipartimento di Scienza e Tecnologia del Farmaco, Università degli Studi di Torino; Prof.ssa Patrizia Restani, Dipartimento Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Università degli Studi di Milano; Prof. Lorenzo Morelli, Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza; Prof. Vicenzo de Leo, Dott.ssa Valentina Cappelli, Dott.ssa Alessandra Di Sabatino, Dipartimento di Medicina Molecolare e dello Sviluppo, Sezione di Ginecologia e Ostetricia, Università degli Studi di Siena; Prof. Benvenuto Cestaro, Dott.ssa Elvira Pistolesi, Scuola di Specialità in Scienza della Alimentazione, Università degli Studi di Milano; Prof. Giovanni Scapagnini, Dott. Sergio Davinelli, Dipartimento di Medicina e Scienze per la Salute, Università degli Studi del Molise, Campobasso; Dott. Andrea Poli, Nutrition Foundation of ltaly, Milano.

 

Il documento presenta lo stato dell’arte delle evidenze scientifiche più significative della ricerca (sperimentale e clinica) su diverse sostanze presenti negli integratori alimentari, sia per alcuni temi specifici che per particolari periodi della vita dell’uomo e della donna.

 

Nonostante la difficoltà oggettiva di dimostrare secondo il metodo scientifico un beneficio clinicamente significativo sul mantenimento dello stato di salute e del benessere, numerose pubblicazioni scientifiche permettono di avere notizie controllate sui diversi componenti degli integratori e sul ruolo effettivamente svolto dagli stessi.

 

Gli argomenti trattati sono molti: il ruolo degli integratori alimentari nei moderni stili di vita; gli integratori, con i loro limiti e vantaggi, di vitamine e sali minerali; gli estratti vegetali e i probiotici; gli integratori per la salute della donna; quelli coinvolti nella fisiologia dell’invecchiamento cerebrale e nella salute cardiovascolare nell’età avanzata; le alterazioni metaboliche legate all’invecchiamento e che concorrono ad aumentare i rischi dell’insorgere delle principali patologie e, non ultime, la qualità e la sicurezza degli integratori.

 

Il documento rappresenta un utile complemento a supporto dell’attività di counselling dei professionisti della salute e un ulteriore stimolo alla conoscenza in questo campo.

 

[http://www.integratoriitalia.it/wp-content/uploads/2016/06/review-integratori-OK.pdf]

 


 

OLIO D’OLIVA E INDICE GLICEMICO

 

Su Diabetes Care è stato pubblicato uno studio italiano condotto dall’Università di Napoli che porta nuove conferme al contributo del consumo di olio extravergine di oliva nella protezione delle complicanze cardio-vascolari e microvascolari del diabete mellito.

 

E’ stato dimostrato che l’assunzione di tale alimento (grasso polinsaturo) durante i pasti può ridurre considerevolmente il picco iperglicemico postprandiale in pazienti con diabete di tipo 1.

 

E’ noto che tra i carboidrati consumati, sono quelli a più alto indice glicemico, contenuti ad esempio nel pane bianco, nel riso, nelle patate, a incidere maggiormente sulla glicemia post-prandiale, rispetto a quelli a basso indice glicemico quali quelli dei legumi.

 

Tanto che per calcolare le unità di insulina da somministrare ai pasti risulta inadeguata la conta dei carboidrati basata sulla quantità totale assunta con il pasto, tra l’altro raccomandata nelle linee guida, mentre è più utile considerare il carico glicemico che tiene conto di tale distinzione. Tuttavia anche la quantità di grassi e la loro qualità possono incidere sulla risposta glicemica postprandiale.

 

Nello studio randomizzato crossover, condotto in un contesto di vita reale in condizioni controllate, i ricercatori hanno arruolato pazienti con diabete di tipo 1 in trattamento con microinfusore e sottoposti a monitoraggio continuo della glicemia con un sensore portatile.

I partecipanti sono stati assegnati a due bracci di studio: in uno i pazienti hanno consumato tre pasti al giorno ad alto indice glicemico a differente contenuto lipidico (grassi saturi o insaturi); nell’altro braccio hanno consumato pasti a basso indice glicemico ma con le stessse quantità e qualità di grassi.

 

E’ stato riscontrato che l’impatto sulla glicemia di un pasto ad alto indice glicemico non veniva modificato dalla contemporanea assunzione di burro, mentre con l’assunzione di olio extravergine di oliva il picco postprandiale si riduceva del 50%.

 

Inoltre questo effetto dell’olio di oliva non si è riscontrato nel braccio con pasti a basso indice glicemico, nei quali per effetto delle fibre la risposta glicemica è già di per sé rallentata.

 

La conclusione a cui sono giunti gli studiosi è che nella gestione ottimale dell’alimentazione del diabete di tipo 1 nella somministrazione di insulina si deve tenere con della qualità dei grassi. Si suppone che tali benefici effetti possano manifestar anche nel diabete di tipo 2.

 

[Bozzetto L, Alderisio A, Giorgini M, Barone F, Giacco A, Riccardi G, Rivellese AA, Annuzzi GExtra-Virgin Olive Oil Reduces Glycemic Response to a High-Glycemic Index Meal in Patients With Type 1 Diabetes: A Randomized Controlled Trial. Diabetes Care. 2016 Apr;39(4):518-24.]

 


 

COLESTEROLO: UNA RIVOLUZIONE NELL’ANZIANO?

 

L’utilizzo delle statine in età superiore ai 60 anni è assai diffuso nella popolazione, anche se non vi sono specifici precedenti patologici: il semplice riscontro di un colesterolo elevato in un soggetto di 65-70 anni e ancora di più negli ultraottantenni potrebbe essere un’arma a doppio taglio che genera più problemi di quelli che vorrebbe risolvere.

 

In un lavoro danese pubblicato sullo Scandinavian Journal of Primary Health Care da Bathum e coll. (1) si afferma che nei soggetti con più di 60 anni di età l’aumento del colesterolo LDL porta sorprendentemente ad una riduzione del rischio di morte per qualsiasi causa in modo molto significativo sia nei maschi che nelle femmine, con un rischio quasi dimezzato rispetto a chi invece ha il colesterolo basso.

 

 

Un lavoro cinese di Lv YB e coll. (2) pubblicato su Atherosclerosis ha addirittura evidenziato che per ogni 30-40 mg/dl in più (sic!) di LDL, cioè di colesterolo cattivo, in soggetti di più di 80 anni si ha una riduzione di morte di tutte le cause di circa il 19%: significa che il colesterolo elevato nella persona anziana, secondo questa ricerca, ha un impatto protettivo favorevole sulle malattie degenerative, su quelle cardiovascolari e addirittura su quelle tumorali.

 

A conferma di ciò, una importante review pubblicata da Ravnskov e coll. (3) sulla famosa rivista British Medical Journal ha confermato in modo rigoroso questi sospetti, stimolando una serie di riflessioni sul ruolo del LDL ed i valori assoluti di colesterolo nella persona anziana.

 

Questo studio multicentrico, condotto da ricercatori di tutto il mondo, ha posto addirittura seri dubbi sulla “ipotesi colesterolo” finora ritenuta valida. La loro revisione, applicata a circa 68.094 persone, ha confermato il fatto che dopo i 60 anni la mortalità per tutte le cause, compresa quella per malattie cardiovascolari, non appare significativamente correlata con i livelli di colesterolo e di HDL.

 

Si tratta di una vera rivoluzione concettuale. Da ciò si deduce la necessità di rivalutare l’utilizzo, spesso invasivo, di terapie con le statine o loro derivati.

 

(1) Bathum L e coll. Association of lipoprotein levels with mortality in subjects aged 50+ without previous diabetes or cardiovascular disease: a population-based register study. Scand J Prim Health Care. 2013 Sep;31 (3):172-80.

 

(2) Lv YB e coll. Low-density lipoprotein cholesterol was inversely associated with 3-year all-cause mortality among Chinese oldest old: data from the Chinese Longitudinal Healthy Longevity Survey. Atherosclerosis. 2015 Mar;239(1 ):137-42.]

 

(3) Ravnskov U e coll. Lack of an association or an inverse association between low-density-lipoprotein cholesterol and mortality in the elderly: a systematic review. BMJ 2016 Jun 12;6(6):e010401.)

 


 

ORARI DELLA CENA E PESO CORPOREO

 

Sulla rivista American Journal of Clinical Nutrition e su Nutriens sono stati pubblicati due studi, condotti in una multicentrica tra università statunitensi, che confermano ancora una volta l’esistenza di uno stretto rapporto tra l’andamento dell’orologio biologico individuale e la salute.

 

In questi studi è stato approfondito un aspetto fondamentale di questa relazione, vale a dire l’associazione tra i pasti e in special modo della cena consumata ad ora tarda e la regolazione del peso corporeo.

 

E’ noto che i soggetti che posticipano per dovere o per scelta la cena alle ore in genere dedicate al riposo notturno (lavoratori notturni abituali o lavoratori turnisti, adolescenti o studenti universitari, soprattutto se residenti fuori casa) sviluppano a lungo andare alterazioni metaboliche non indifferenti, a iniziare proprio dal controllo del peso.

 

Questa ricerca aggiunge un tassello non indifferente, dimostrando che i tempi individuali del rilascio di melatonina, l’ormone che prepara l’organismo al riposo notturno, condizionano il metabolismo post-cena più dell’orario effettivo in cui si consuma questo pasto, ma anche più della sua composizione (in macronutrienti e calorie) e dell’attività fisica individuale.

 

In pratica, nel corso dell’osservazione sono stati valutati in volontari sani: l’ora della cena, i tempi individuali del rilascio della melatonina (che per l’organismo corrispondono all’avvio delle ore di riposo notturno), le calorie assunte a cena e la composizione di questi pasti e di eventuali snack dopo cena.

 

Il numero di ore effettive di sonno nelle 24 ore (sonno notturno ed eventuale pisolino). Tutti questi parametri sono stati analizzati in rapporto ai dati relativi al sesso di ciascun partecipante, all’attività fisica abituale, al BMI e alla percentuale di grasso corporeo.

 

I risultati hanno dimostrato che, ad influire sul metabolismo degli alimenti assunti con la cena, non è tanto l’ora del pasto (che per la maggior parte dei soggetti si collocava attorno alle 20:30 – 21:30) ma la prossimità tra l’ora della cena stessa e il picco del rilascio individuale di melatonina: più questi due tempi erano vicini (non dimentichiamo che negli USA la cena varia usualmente tra le 18:30 – 19:30) maggiore era l’incremento di peso registrato.

 

Questa associazione inoltre risultava indipendente dal sesso dei partecipanti, dall’attività fisica abituale e persino dalla composizione in nutrienti e calorie, della cena.

 

La personalizzazione dei tempi della cena serale, in base ai personali ritmi circadiani, potrebbe, secondo questi dati, influenzare il peso corporeo ed entrare tra le strategie di controllo del sovrappeso.

 

[McHill AW, Phillips AJK, Czeisler CA, Keating L, Yee K, Barger LK, Garaulet M, Scheer FA, Klerman EBLater circadian timing of food intake is associated with increased body fat. Am J Clin Nutr. 2017 Nov;106(5):1213-1219.

 

McHill AW, Czeisler CA, Phillips AJK, Keating L, Barger LK, Garaulet M, Scheer FA, Klerman EB. Caloric and Macronutrient Intake Differ with Circadian Phase and between Lean and Overweight Young Adults. Nutrients. 2019 Mar 11;11(3).]

 


 

COLPO DI FRUSTA E PAURA DEL DOLORE

 

Il colpo di frusta è una patologia assai frequente data l’incidenza dei tamponamenti tra autoveicoli: uno dei problemi che si presentano frequentemente è l’amplificazione del dolore e la riduzione della mobilità dovuta alla paura di ipotetiche lesioni.

 

In un lavoro del Department of Rehabilitation Medicine, University of Washington, Seattle, USA, pubblicato su Pain è stato preso in esame il ruolo della paura successivo al colpo di frusta (WAD) e valutata l’efficacia di tre trattamenti per contrastare la paura.

 

 

I soggetti (n.=191) ancora sintomatici per lesioni di grado I-II associate a WAD avvenuto 3 mesi prima hanno compilato alcuni questionari (ad es. Neck Disability Index [NDI]) e sono stati randomizzati a ricevere uno dei seguenti trattamenti:

 

  • 1. opuscolo informativo (IB) relativo a WAD e all’importanza della ripresa delle attività;
  • 2. opuscolo informativo e discussioni didattiche (DD) con i clinici per rafforzare i contenuti dell’opuscolo;
  • 3. opuscolo informativo e desensibilizzazione mediante esposizione diretta o immaginata (ET) alle attività temute.

 

I partecipanti al gruppo DD ed ET hanno ricevuto un trattamento di tre sessioni da due ore ciascuna. L’analisi statistica ha confermato che la riduzione della paura ha mediato significativamente gli effetti del gruppo di trattamento in merito all’outcome.

 

I risultati, migliori nel gruppo DD, sottolineano il ruolo della paura nei soggetti con WAD subacuto e suggeriscono l’importanza dell’affrontare la paura attraverso l’esposizione e/o gli interventi didattici volti a migliorare la funzionalità.

 

[Robinson JP e coll. The role of fear of movement in subacute whiplash-associated disorders grades I and II. Pain. 2013 Mar;154(3):393-401.]

 


 

SQUAT E ATTIVAZIONE MUSCOLARE

 

Molti atleti eseguono lo squat in modo errato enfatizzando in modo eccessivo i quadricipiti a spese dell’articolazione coxofemorale avvicinando le ginocchia nella discesa allineandole al di sopra delle dita dei piedi.

 

Una scadente biomeccanica del movimento di squat aumenta il rischio di infortunio/lesione alla colonna e diminuisce il beneficio del sollevamento.

 

Lindsay Slater e Joseph Hart del Department of Kinesiology, University of Virginia, USA hanno pubblicato sul Journal of Strength and Conditioning Research uno studio rilevando che questo tipo di biomeccanica aumentava l’attivazione dei muscoli ischiocrurali e del polpaccio, a scapito dei glutei e dei quadricipiti.

 

 

Secondo il Dr. Pierluigi De Pascalis la tecnica base prevede: «Dalla stazione eretta posizionare il bilanciere sulle spalle, impugnando con i palmi delle mani rivolti in avanti. Divaricare le gambe con una larghezza prossima a quella delle spalle, piante dei piedi lievemente extraruotate. Da questa posizione flettere le ginocchia con la schiena estesa, sino a porre il femore idealmente parallelo con il terreno, e senza che il ginocchio superi la punta dei piedi. Tornare nella posizione di partenza” (NonSoloFitness® 2017.07.24).

 

Va anche detto che l’accosciata può essere più profonda con l’attivazione differenziata di gruppi muscolari e che il non superamento del ginocchio delle dita dei piedi non è un mantra. Ciò che viene enfatizzato da questo lavoro è la perfezione dell’esercizio e solo in un secondo momento il carico. Non dimentichiamo che ci vogliono tempi molto lunghi per gestire con tranquillità squat impegnativi.

 

[Slater L e coll. Muscle Activation Patterns During Different Squat Techniques. J Strength Cond Res. 2017 Mar;31(3):667-676.]

 


 

CAMMINARE O RAFFORZARE I MUSCOLI PER IL MAL DI SCHIENA

 

 

Obiettivo dello studio pubblicato sulla rivista Clinical Rehabilitation da parte di Shnayderman I e coll. del Department of Physiotherapy, Tel-Aviv University, Israele, era valutare gli effetti dell’allenamento aerobico del cammino confrontandoli con gli effetti dell’allenamento attivo, incluso il rafforzamento muscolare, sulle capacità funzionali di pazienti affetti da lombalgia cronica.

 

Sono stati arruolati 52 pazienti sedentari di età compresa tra 18 e 65 anni affetti da lombalgia cronica. Esclusi i pazienti post chirurgici, posttraumatici, con problemi cardiovascolari e con patologie oncologiche.

 

Un gruppo sperimentale “cammino”: cammino su tapis roulant da moderato a intenso; gruppo di controllo “esercizi”: esercizi per la zona lombare; entrambi i gruppi: 2 volte alla settimana per 6 settimane.

 

Le principali misure di outcome: test del cammino di 6 minuti, Fear-Avoidance Beliefs Questionnaire, test della resistenza dei muscoli della schiena e dell’addome, Oswestry Disability Questionnaire, Low Back Pain Functional Scale (LBPFS).

 

Si sono osservati miglioramenti in entrambi i gruppi per tutte le misure di outcome con differenze non significative tra i gruppi. Gli autori concludono dicendo che un programma di “cammino” della durata di 6 settimane si è dimostrato efficace come un programma di esercizi specifici di rafforzamento per la regione lombare della stessa durata.

 

[Shnayderman I e coll. An aerobic walking programme versus muscle strengthening programme for chronic low back pain: a randomized controlled trial. Clin Rehabil. 2013 Mar;27(3):207-14.]

 


 

L’ALLENAMENTO BILATERALE E SISTEMA CARDIOVASCOLARE

 

L’allenamento unilaterale, cioè di una parte del corpo per volta, è un metodo di allenamento con i pesi giustamente sottovalutato e scarsamente utilizzato.

 

I movimenti di molte discipline sportive, come tirare il diritto nel tennis, lanciare il disco o calciare una palla sono naturalmente unilaterali. Gli atleti che praticano questi sport possono trarre beneficio da un allenamento unilaterale. Tuttavia alcuni metodi di allenamento come il crossfit solitamente prevedono delle sedute di esercizio a volume elevato, che sviluppa la forza e anche il fitness cardiovascolare.

 

Moreira e coll.(1) dell’Institute of Biological Sciences and Health della Federal University di Viçosa, in Brasile, hanno pubblicato uno studio sul Journal of Strength Conditioning Research rilevando che gli esercizi bilaterali sollecitavano beneficamente il sistema cardiovascolare più di quelli unilaterali.

 

 

I soggetti testati hanno eseguito tre set di curl bicipiti, estensione delle ginocchia e sollevamenti con bilanciere e pesi sia in modo unilaterale che bilaterale. Per quanto riguarda i curl e l’estensione delle ginocchia, la pressione sistolica e lo sforzo sul cuore (calcolando la frequenza cardiaca e la pressione con sfigmomanometro) era maggiore durante l’allenamento bilaterale, ma non vi era alcuna differenza con le varie metodologie.

 

L’allenamento bilaterale rappresenta uno stress cardiovascolare leggermente superiore all’allenamento unilaterale. Quest’ultimo però, secondo Muscolar Development darebbe altri importanti benefici per gli atleti di potenza e per i bodybuilder: tutto da dimostrare dopo, ad esempio, il lavoro di Makaruk (2) pubblicato sulla stessa rivista.

 

[(1) Moreira OC. Cardiovascular Responses to Unilateral, Bilateral, and Alternating Limb Resistance Exercise Performed Using Different Body Segments. J Strength Cond Res. 2017 Mar;31 (3):644-652.

(2) Makaruk H. Effects of unilateral and bilateral plyometric training on power and jumping ability in women. J Strength Cond Res. 2011 Dec:25(12):3311-8]

 


 

COLESTEROLO HDL E CUORE

 

Il colesterolo HDL non è sempre cosi “buono”, almeno secondo uno studio multicentrico internazionale pubblicato su Science e condotto dai ricercatori della scuola di medicina dell’Università della Pennsylvania.

 

Dal trial emerge infatti che una specifica mutazione di un gene che codifica una proteina del recettore cellulare per l’HDL impedisce a quest’ultimo di funzionare, provocando un aumento del rischio di malattia coronarica, pur in presenza di elevati livelli di colesterolo HDL, che come si sa dovrebbe avere un effetto protettivo.

 

Le ricerche su questo argomento, secondo gli autori, suggeriscono che l’HDL potrebbe non essere cosi protettivo contro le malattie cardiache, specialmente dopo che diversi studi clinici hanno dimostrato la scarsa efficacia dei farmaci che ne aumentano i valori.

 

I risultati delle ricerche indicano che in alcuni casi l’HDL può aumentare il rischio cardiovascolare, dimostrando per la prima volta la presenza di una mutazione genetica che ne aumenta i livelli e contemporaneamente le probabilità di malattie cardiache.

 

 

I ricercatori hanno sequenziato le regioni ipolipemizzanti dei genomi di 328 persone con HDL marcatamente elevato, confrontando i dati con quelli di un gruppo di controllo con normali valori di “colesterolo buono”.

 

Lo studio genetico ha portato ad identificare delle alterazioni recettoriali sulla superficie cellulare per l’HDL che portavano a non far funzionare gli stessi recettori, impedendo di legare le molecole del colesterolo HDL e subirne quindi la protezione. Da qui, paradossalmente, i livelli aumentati di questo colesterolo, che invece di proteggere può aumentare il rischio di malattia.

 

Questo studio raffinato tende a dimostrare che gli effetti protettivi del HDL dipendono più dal suo funziona-mento che dalla quantità. Questa specifica mutazione del genoma sembra essere specifica degli ebrei Ashkenazi, lo studio di questo gruppo etnico potrebbe essere importante per capire meglio il fenomeno

 

[Zanoni P e coll. Rare variant in scavenger receptor BI raises HDL cholesterol and increases risk of coronary heart disease. Science. 2016 Mar 11;351(6278):1166-71.]

 


 

PESCE IN GRAVIDANZA? ATTENZIONE!

 

Mangiare pesce più di tre volte la settimana in gravidanza si potrebbe associare nella prole ad un rischio maggiore di obesità infantile, secondo quanto riportato da uno studio multicentrico che vede la partecipazione di numerosi studiosi di moltissimi Paesi, pubblicato sulla rivista JAMA Pediatrics, coordinato da Leda Chatzi (Department of Social Medicine, Faculty of Medicine, University of Crete, Heraklion, Greece).

 

Il pesce infatti è fonte comune di esposizione agli inquinanti organici, che possono interferire con il sistema endocrino, contribuendo allo sviluppo dell’obesità: gli autori ricordano che dal 2014 la Food and Drug Administration e l’Environmental Protection Agency statunitensi consigliano a puerpere e gestanti di consumare non più di tre porzioni di pesci la settimana per evitare l’esposizione fetale al metilmercurio.

 

Per approfondire l’argomento i ricercatori greci hanno analizzato i dati di 126.184 donne gravide e della loro prole in Europa e Stati verificando l’associazione tra consumo materno di pesce e sovrappeso nell’infanzia.

 

I bambini sono stati seguiti fino all’età di 6 anni e l’assunzione media di pesce  in gravidanza variava da 0,5 volte a settimana in Belgio a 4,45 volte a settimana in Spagna: all’età di 4 e 6 anni sono risultati sovrappeso oppure obesi rispettivamente il 19,4% e il 15,2% dei bambini nati da madri che consumavano pesce tre o più volte la settimana.

 

Gli autori sottolineano che l’entità dell’incremento ponderale associato ad una maggior assunzione di pesce era più evidente nei maschietti, ipotizzando che la contaminazione da inquinanti ambientali presenti nel pesce potrebbe fornire una spiegazioni plausibile per documentare l’associazione. Tuttavia, in mancanza di dati sui livelli di inquinanti organici nei partecipanti, l’ipotesi di un possibile ruolo causa-effetto resta per ora del tutto speculativo.

 

Gli studiosi concludono però che i risultati ottenuti sono comunque in linea con il limite di assunzione di pesce in gravidanza, come detto sopra, consigliato dalla FDA e dall’Agenzia di protezione ambientale statunitense.

 

[Stratakis N e coll. Fish lntake in Pregnancy and Child Growth: A Pooled Analysis of 15 European and US Birth Cohorts. JAMA Pediatr. 2016 Apr;170(4):381-90.]

 


 

IPERTENSIONE ARTERIOSA E TERAPIA

 

Secondo i risultati di una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista The Lancet dal prof. Böhm dell’Università di Amburgo, coadiuvato da ricercatori canadesi, spagnoli, italiani, sudafricani, statunitensi e britannici, utilizzare la terapia farmacologica per ottenere una pressione arteriosa più bassa possibile non è sempre la soluzione migliore.

 

Gli autori affermano infatti che in un iperteso il raggiungimento di una pressione arteriosa sistolica inferiore ai 120 mmHg è spesso associato all’aumento del rischio di alcuni eventi cardiovascolari, esclusi però l’infarto miocardico o l’ictus. Lo stesso ragionamento si può applicare per una pressione diastolica inferiore a 70 mmHg.

 

Lo studio policentrico ha arruolato più di 30.000 pazienti di età superiore ai 55 anni, tutti ritenuti ad alto rischio cardiovascolare, secondo alcuni protocolli internazionali, rilevando che una pressione sistolica basale maggiore di 140 mmHg era associata ad una maggiore incidenza di tutti gli esiti rispetto ad una pressione arteriosa sistolica compresa tra i 120 e i 140 mmHg.

 

 

E anche che una pressione diastolica basale inferiore a 70 mmHg era correlata a un maggior rischio di esiti rispetto a valori superiori a 70 mmHg. Tuttavia anche i pazienti con una pressione massima inferiore a 120 mmHg dovuta al trattamento farmacologico hanno presentato, rispetto al gruppo di controllo, un aumento del rischio di esiti cardiovascolari, tra cui addirittura l’exitus.

 

Lo stesso rilievo è stato fatto anche per quanto riguardava la pressione minima. Gli autori affermano che, secondo la loro analisi, il raggiungimento di una pressione sistolica non inferiore ai 120 mmHg dovrebbe essere una soglia sicura per la maggior parte dei pazienti ad alto rischio ed eliminare gli effetti collaterali.

 

Specie nell’anziano i risultati suggeriscono che potrebbe essere necessario ridurre il dosaggio dei farmaci per la pressione per evitare una vera ipotensione iatrogena che invece di portare beneficio potrebbe causare effetti assolutamente indesiderati.

 

[Böhm M. e coll. Achieved blood pressure and cardiovascular outcomes in high-risk patients: results from ONTARGET and TRANSCEND trials. Lancet. 2017 Jun 3;389(10085):2226-2237.]

 

 

 

a cura del Comitato Scientifico ISSA Europe

 

 

 

 

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