ALLENAMENTO HIIT

 

L’interval training ad alta intensità (HIIT) migliora la forma fisica più rapidamente rispetto al semplice lavoro aerobico.

 

Molte persone hanno problemi ad aderire ad un programma HIIT a causa dell’intensità dello stesso e quindi si tende a non farlo praticare perché il cliente “brontola”.

 

Alcuni ricercatori dell’Università di Copenhagen hanno pubblicato uno studio sullo Scandinavian Journal of Medicine and Sciences of Sports in cui hanno definito che 10-20 allenamenti – spinte ripetute di 30”, seguiti da 20” di esercizi a moderata intensità, seguiti da 10” di esercizi ad alta intensità – migliorano le prestazioni generali sia nella corsa, sia nel salto, riducono la pressione arteriosa, aumentano il consumo massimale di ossigeno (VO2max) e riducono il fattore di crescita vascolare endoteliale (marker della ipertrofia della parete arteriosa su base patologica).

 

I soggetti sottoposti sono stati in grado di sostenere 20-30 allenamenti per un programma di 8 settimane, rispetto al gruppo di controllo, quando nel HIIT erano previsti solo periodi di 10” di esercizi ad alta intensità piuttosto che intervalli più lunghi o serie più intense. L’argomento è interessante e andrebbe tenuto conto della specificità del soggetto che si allena..

 

SALE E OBESITA’

 

Un elevato consumo di sale, unitamente a quello di zucchero raffinato e di grassi, è legato all’obesità in termini molto più stretti di quanto si pensasse.

 

Sulla prestigiosa rivista Hypertension i ricercatori della London School of Medicine hanno pubblicato una ricerca nella quale indicano che un alto consumo di sale non è legato direttamente all’assunzione di diete iperlipidiche sia negli adulti che nei bambini: il sale cioè si muove in modo indipendente dalla dislipidemia alimentare, evidentemente seguendo altri percorsi metabolici.

 

I ricercatori hanno valutato i livelli di sodio nelle urine raccolte nelle 24 ore in più di 1000 soggetti, sia adulti che bambini, che facevano parte di uno studio promosso dalla UK National Diet and Nutrition Survey, promossa dal Ministero della Salute britannico. I dati epidemiologici confermano che il consumo di sale è risultato maggiore, statisticamente significativo, nei soggetti obesi e inoltre il rischio di obesità aumenta del 28% per ogni grammo di sodio consumato oltre i valori limite.

 

COLAZIONE E PESO CORPOREO

 

Le linee guida americane per l’alimentazione raccomandano di fare colazione ogni giorno per evitare di aumentare il peso corporeo.

 

Questi suggerimenti sono basati sulla metanalisi deduttiva di numerosi studi piuttosto che su esperimenti realmente condotti con la finalità di dare una risposta a questo quesito.

Il quadro che ne esce dimostra che gli scienziati hanno condotto studi osservazionali, sia pur a volte randomizzati, e dopo aver misurato le variabili di interesse non si sono preoccupati di dare indicazioni per eventuali trattamenti.

 

Un grosso studio della Columbia University, pubblicato su Obesity, ha messo a confronto, per un periodo di 4 settimane, persone che non facevano colazione con chi mangiava fiocchi d’avena o cereali ed è emerso, contrariamente a quanto ci si aspettava, che saltare la colazione stimolava la perdita di peso, mentre chi faceva colazione non aveva avuto riscontro di cambiamento di peso corporeo.

 

Di fronte a questi dati contrastanti gli studiosi hanno comunque consigliato che la colazione serve per fornire le energie per le attività quotidiane e consente anche l’eventuale assunzione di fibre per migliorare il transito intestinale.

 

ALLENAMENTO E FUNZIONE MITOCONDRIALE

 

Si può dire che i mitocondri sono la centrale di potenza delle cellule, svolgendo essi la funzione essenziale della respirazione cellulare.

 

L’alterazione del network mitocondriale, con il distacco e la perdita di mitocondri e la loro successiva morte, si riverberano in un peggioramento dello stato metabolico dell’organismo e conducono all’apoptosi cellulare, in soldoni aumentano la morte programmata delle cellule. Uno dei concetti fondamentali dell’attività fisica è che gli esercizi aerobici sono il modo migliore per aumentare il network mitocondriale e mantenerne efficiente la funzione: molti autori però sono convinti che anche l’allenamento con i pesi abbia lo stesso effetto.

 

I ricercatori dell’Università del Texas hanno pubblicato un lavoro su Medicine & Science in Sports & Exercise in cui riferiscono di aver avuto ancora una volta la conferma che l’allenamento di tipo aerobico, ma anche e specialmente l’allenamento con i pesi, migliora le funzioni mitocondriali.
Un gruppo formato da 12 soggetti che si sono allenati con i pesi per 12 settimane hanno dimostrato un netto miglioramento della funzionalità, sia metabolica che genetica, mitocondriale.

 

Questi risultati possono essere di particolare importanza per le persone anziane, che perdono massa muscolare e di conseguenza funzionalità mitocondriale. L’unica maniera per combattere la parafisiologica sarcopenia è quella di includere l’allenamento con i pesi nel programma di allenamento per contrastare la perdita e preservare la massa muscolare, stimolando quindi secondariamente la capacità mitocondriale.

 

Non ultimo, un adattamento specifico nella dieta, che veda l’assunzione di proteine in quantità maggiori rispetto a quelle tradizionalmente consigliate, specie dai nefrologi.

 

MORTE IMPROVVISA NELLO SPORT

 

Lo sport, sia amatoriale che agonistico, è quasi sempre legato ad esperienze positive in termini di buono stato di salute e di benessere.

 

La rivista Science si è interessata delle morti improvvise negli atleti. Intanto puntualizza che questo fenomeno non è così comune come una certa stampa vuole far credere: si tratta di 1 caso su 100.000 persone all’anno in giovani atleti sia donne che uomini; di 6 casi su 100.000 persone all’anno negli uomini maturi.

Le cause sono principalmente legate ad aritmie, a cardiopatie ischemiche o a fenomeni cerebrali (quest’ultimi assai rari).

 

Il problema si pone anche per tutti coloro che svolgono attività fisica.

Gli autori rilevano che una linea di pensiero vorrebbe che tutti coloro che si avvicinano all’attività fisica (e qui si pone anche il problema: di che livello?) facessero un elettrocardiogramma basale, da sforzo e un ecocardiogramma.

 

Tale atteggiamento impatterebbe con costi elevatissimi per gli utenti (negli USA tali esami sono a pagamento e rimborsabili o meno dalle assicurazioni), assolutamente non sostenibile nelle società in cui l’assistenza sanitaria è a carico dello Stato. Un’altra linea di pensiero è quella di identificare i soggetti con familiarità a tali forme patologiche e quindi sottoporli ad indagine.

 

Le conclusioni sono che per quanto riguarda gli atleti che si impegnano in performance specifiche la condotta più corretta è quella di sottoporli ai test previsti dalle federazioni, mentre per il grande pubblico del fitness è il medico curante che dovrebbe valutare la necessità o meno di accertamenti.
Stante che l’attività fisica in generale non obbligatoriamente rientra nella sfera dei controlli sanitari.

 

CAFFE’ E CORONARIE

 

Uno studio coreano, pubblicato sulla rivista JAMA condotto su più di 25.000 adulti, sia uomini che donne, con un consumo moderato di caffè è legato a livelli minori di deposito di calcio nelle arterie coronariche e quindi ad un minor danno delle stesse.

 

Attraverso tecnologie raffinate sono stati dosati i livelli di calcio nelle arterie coronariche sia di bevitori di caffè che non. Rispetto a coloro che non bevono caffè, chi ne assume da una a tre tazzine al giorno riduce il rischio di accumulo di calcio nelle coronarie del 13%; se ne si beve da 4 a 5 tazzine al giorno il rischio si ridurrebbe sino al 40%.

 

Il lavoro è molto importante proprio per la diffusione mondiale di questa bevanda e per le numerose notizie, che sono spesso circolate sugli effetti che ne derivano.

 

D’altro canto il rilievo della sinergia tra caffè e malattie coronariche, ha un carattere epidemiologico molto grande dato che questa patologia prevede appunto un deposito di grassi, di cellule infiammatorie e di calcio nella parete arteriosa: alti livelli di calcio distrettuale aumentano il rischio di attacco cardiaco del 25% e di morte prematura per diverse cause del 12%. Insomma, per noi italiani si conferma l’idea che una buona tazzina di caffè non fa mai male.

 

CIBI PICCANTI AD AZIONE PROTETTIVA

 

Sulla prestigiosa rivista British Medical Journal è stato pubblicato un ponderoso studio condotto da un pool di università cinesi che ha concluso che mangiare cibi piccanti da tre fino a sei giorni la settimana riduce il rischio generico di morte derivante da diverse cause (morti all’anno), di morte da tumore e contrasta il rischio di malattie coronariche e respiratorie.

 

I ricercatori hanno esaminato più di 250.000 soggetti apparentemente sani, sia uomini che donne, di età compresa tra i 30 e i 79 anni, e l’indagine epidemiologica ha dato il risultato che mangiare cibi piccanti ha diminuito il loro rischio di morte prematura di circa il 14%.

 

Tra le altre cose è emerso che gli effetti dei cibi piccanti sul tasso di mortalità sono stati maggiori nelle persone che non bevevano alcol. Tra tutte le sostanze vegetali adoperate, quella che maggiormente ha interessato i biochimici è stata la capsaicina, elemento presente nel peperoncino, che ha dimostrato di avere una grande incidenza nella salute metabolica e nel contribuire alla riduzione del peso corporeo, almeno nel genotipo asiatico.

 

HMB E ATTIVITA’ FISICA

 

Il beta-idrossi-beta-metil-butirato (HMB) è un metabolita dell’aminoacido leucina (uno dei tre aminoacidi ramificati) che ha suscitato l’interesse dei ricercatori della Poznan University of Technology in Polonia, che hanno pubblicato una ricerca sul Journal of International Society of Sports Nutrition sull’azione metabolica del HMB.

 

È stato rilevato come questo metabolita previene il catabolismo precoce delle proteine muscolari, stimola al contrario la crescita del muscolo e favorisce l’utilizzo dei lipidi come fonte di energia.

 

I ricercatori polacchi hanno rilevato come un gruppo di rematori che assumevano 3 gr di HMB al giorno per 12 settimane hanno mostrato un aumento del consumo massimale di ossigeno (VO2max), una diminuzione della frequenza cardiaca e della respirazione sotto sforzo e una diminuzione statisticamente significativa della massa grassa rispetto al gruppo di controllo che assumeva un placebo.

 

Essi giungono quindi alla conclusione che l’HMB migliora la capacità aerobica, riduce il grasso corporeo e aumenta il picco di potenza e quindi lo consigliano come integratore importante per negli esercizi di forza negli atleti.

 

ANTIOSSIDANTI E TESTOSTERONE

 

Il testosterone è prodotto nelle cellule di Leydig nei testicoli che sono soggette ad una aumentata sensibilità dello stress ossidativo durante l’invecchiamento: tutto ciò compromette alla fine la produzione di testosterone.

 

Questo si innesta nel sistema più generale della produzione di radicali liberi, altamente reattivi, durante il metabolismo cellulare. Questo altera le membrane cellulari e il DNA contenuto, portando o alla morte cellulare o ad alterare la funzione originaria delle cellule specifiche, interferendo anche con il funzionamento del sistema immunitario.

 

Uno studio svolto dall’Università delle Hawaii ha rilevato che riducendo lo stress ossidativo attraverso una corretta alimentazione e con un utilizzo di integratori specifi ci è possibile diminuire lo stress diretto sulle cellule di Leydig e incrementare la corretta funzione delle stesse.

 

BETA-ALANINA E RESISTENZA MUSCOLARE

 

Secondo uno studio dell’Università di Bruxelles, pubblicato su Amino Acids si rileva che la beta-alanina aumenta l’altezza media del salto durante le prove di jump squat pliometrico ripetuto.

 

L’alanina è un aminoacido che aiuta a fornire energia durante l’esercizio fi sico: questo aminoacido è convertito in glucosio nel sangue dal fegato attraverso un processo chiamato ciclo del glucosio-alanina (ciclo di Cahill).
L’alanina non è particolarmente utilizzata per azione plastica di sintesi di tessuto muscolare o di enzimi ad esso connesso, ma influenza la capacità dell’esercizio, in particolare la performance nell’endurance e nella forza.

Questo aminoacido previene inoltre il senso della fatica aumentando i livelli di carnosina nei tessuti. La carnosina a sua volta è un antiossidante importante che protegge le cellule dall’azione dannosa dei radicali liberi, oltre che diminuire il senso di affaticamento legato all’attività stessa. Questo studio conferma quanto già evidenziato da altri lavori in cui veniva rilevato il positivo effetto dell’alanina, specie nell’allenamento con i pesi: la dose efficace sarebbe dai 4 ai 6 grammi al giorno.

 

TESTOSTERONE E COMPOSIZIONE CORPOREA

 

Il testosterone è un ormone importante per il controllo dell’obesità: questa è un’affermazione che si ritrova spesso in letteratura ed è confermata da un lavoro condotto da ricercatori britannici e pubblicato su Obesity Reviews. Secondo questo studio livelli bassi di testosterone sono legati ad un aumento del grasso corporeo totale, aumentano la deposizione di grasso endoaddominale e sicuramente contribuiscono alla diminuzione della massa muscolare.

 

Tutti questi cambiamenti nella composizione corporea sono legati ad un’alterazione della omeostasi energetica, ad un controllo scorretto della glicemia, ad una diminuzione della sensibilità all’insulina e a livelli anomali di grassi nel sangue.

 

La somministrazione di testosterone, secondo questi studiosi, aiuta a ricostruire i livelli normali di composizione corporea e migliora la motivazione, i livelli di energia e il vigore fisico che consentono agli uomini di condurre uno stile di vita più attivo.
Resta sempre il problema degli effetti pericolosi sul sistema ghiandolare prostatico.

 

ALLARME SU UNA SOSTANZA BRUCIAGRASSI

 

Dopo le famose creme “scioglipancia” sono comparse sul mercato i “bruciagrassi” che hanno però effetti collaterali molto importanti.

 

Secondo un articolo pubblicato su Emergency Medicine, il Centro Antiveleni britannico ha rilevato l’aumento degli effetti collaterali provocati da una sostanza “bruciagrassi” usata specificamente dai body-builder e da altre persone che utilizzano diete fai-da-te.

 

La colpa è del 2,4-dinitrofenolo, o DNP, un composto chimico usato nella produzione di coloranti, conservanti del legno, esplosivi e insetticidi.

 

Gli studiosi dell’Università di Newcastle fanno riferimento al DNP, ricordando come lo stesso sia stato sintetizzato il secolo scorso, negli anni ’30, come farmaco dimagrante e che abbia avuto nuovo rilancio trai body-builder e coloro che vogliono dimagrire velocemente, tramite l’utilizzo di internet.

 

Tale sostanza è vietata dalla FDA fin dal 1938 eppure, seppur illegale per uso medicinale, è disponibile all’acquisto su internet per contribuire alla dieta che qualcuno ormai ha definito come “la dieta dell’insetticida”.

 

Vengono segnalati addirittura casi mortali, ma specialmente gravi danni epatici e renali; effetti minori, ma sempre rilevanti, sono la febbre, la tachicardia, il vomito, le eruzioni cutanee, le cefalee e le agitazioni psicomotorie.

 

Gli studiosi ritengono che sia necessario fare un’opera di prevenzione sui social network, rilevando come il DNP non è un farmaco ma una sostanza tossica che non deve essere assolutamente adoperata al di fuori dell’uso industriale.

 

NON PIU’ STRETTE DI MANO IN OSPEDALE

 

Un curioso, ma significativo, editoriale pubblicato su JAMA suggerisce di bandire la stretta di mano dai contesti sanitari, sostituendola con altri cenni di saluto che meno si prestano a diffondere le infezioni (ad esempio un cenno del capo o delle mani).

 

I ricercatori dell’Epidemiolgy and Infection Control di Los Angeles hanno condotto uno studio assai lungo nel tempo e su un numero molto elevato di operatori sanitari, rilevando come sulle mani degli stessi fossero presenti germi dei tipi più diversi, nonostante la proliferazione di liquidi disinfettanti appesi da ogni parte.

 

Attraverso questionari e auditing interni, la percentuale di personale sanitario che si lava le mani in modo ritenuto utile a prevenire il passaggio delle infezioni si aggira purtroppo solo attorno al 40%.

 

Facendo una metanalisi su numerosi altri studi che si sono interessati di questo problema i dati sembrano coincidere, evidenziando anche un aspetto deleterio che è il lavaggio delle mani rapido, non in grado di essere sufficientemente efficace.

 

Gli autori arrivano ad una conclusione che potremmo definire scioccante: nonostante tutte le campagne svolte in questi ultimi 25 anni, le percentuali, come si diceva sopra, di operatori che si comportano correttamente è ampiamente sotto la soglia di pericolo, il che significa che se non si è in grado di aumentare tale soglia, bisogna bypassare il problema.

 

Come? Non certo per maleducazione o per mancanza di rispetto, ma per evitare di diffondere germi tra persone in ambito ospedaliero, la stretta di mano in tale ambiente dovrebbe essere evitata e sostituita con altri cenni di saluto.

Le considerazioni possono far sorridere, ma non dimentichiamo che il 5% delle morti ospedaliere è legato ad infezioni che si contraggono in questi ambienti e su questo certamente non si può sorridere.

 

 

 

 

a cura del Comitato Scientifico

 

 

 

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