La dieta chetogenica contiene meno del 10% di carboidrati e più del 60% di grassi ed è diffusa tra coloro che cercano di perdere peso. Il cervello utilizza soprattutto il glucosio come carburante, ma può usare anche chetoni e lattato. Durante una dieta a basso contenuto di carboidrati e calorie il fegato produce chetoni per fornire carburante al cervello.

 

I chetoni provengono dagli acidi grassi rilasciati durante la scomposizione del grasso corporeo che si verifica a causa del ridotto introito di calorie e carboidrati. Uno studio condotto da Paul Urbain del Department of Medicine, Section of Clinical Nutrition and Dietetics, dell’Università di Friburgo, Germania, pubblicato su Nutrition & Metabolism ha dimostrato che le diete chetogeniche non sono indicate per gli atleti. Quarantadue adulti attivi hanno seguito una dieta a bassa intensità energetica, alto contenuto di grassi e povera di carboidrati per sei settimane.

 

Hanno perso circa due libbre di grasso e due di massa magra e hanno migliorato la regolazione dello zucchero nel sangue. Però sono diminuiti il consumo massimale di ossigeno (VO2max) e la potenza e si è deteriorato il metabolismo del colesterolo. Le diete chetogeniche, secondo questi studiosi, non sono adatte agli atleti perché riducono il fitness e diminuiscono la massa magra.
[Urbain P e coll. Impact of a 6-week non-energyrestricted ketogenic diet on physical fi tness, body composition and biochemical parameters in healthy adults. Nutr Metab (Lond). 2017 Feb 20;14:17.]

 


 

L’attività fisica è movimento dei muscoli, come stare in piedi e camminare, che richiede energia, mentre l’esercizio è la pianificazione in movimenti ripetitivi, come nel fare jogging o sollevare pesi e l’allenamento è la razionalizzazione della sequenza degli esercizi. I primi due sono importanti, secondo uno studio condotto da Nyssa Hadgraft del Baker Heart and Diabetes Institute di Melbourne, in Australia pubblicato sull’International Journal of Behavioral Nutrition and Physical activity.

 

Camminare cinque minuti ogni ora durante una giornata lavorativa di otto ore migliora il benessere emotivo dell’impiegato e migliora la struttura organizzativa nel posto di lavoro. Anche se la diffusione del programma è scontata, i ricercatori non riferiscono dati importanti relativamente al fitness, alla salute metabolica, i costi relativi ad assenteismo e sanità. Lo studio sarebbe interessante, ma gli autori avrebbero dovuto riportare dati che fossero di utilità per le varie aziende.

 

L’esercizio è importante, ma è altrettanto importante muoversi per tutto l’arco della giornata. Pare il tipico lavoro che scopre l’acqua calda.
[Hadgraft NT e coll. Intervening to reduce workplace sitting: mediating role of social- cognitive constructs during a cluster randomised controlled trial. Int J Behav Nutr Phys Act. 2017 Mar 6;14(1):27.]

 


 

 

È bastata una sola notte di privazione del sonno per impedire il recupero da un interval training ad alta intensità (HIIT) in ciclisti agonistici, secondo Dale Rae e coll., della University of Cape Town in Sud Africa. Pubblicato sul European Journal of Applied Physiology il lavoro descrive come dei ciclisti privati del sonno hanno mostrato una diminuzione della potenza. La mancanza di sonno provoca catabolismo tissutale caratterizzato dall’aumento degli ormoni catabolici, come il cortisolo, e dalla diminuzione degli ormoni anabolici, come il testosterone e il fattore della crescita insulino-simile (IGF-1).

 

Un sonno inadeguato rallenta i percorsi della sintesi proteica, aumenta la degradazione delle proteine e favorisce la perdita di massa muscolare e il catabolismo muscolare.
Negli atleti un sonno insufficiente rallenta la guarigione da infortunio e la riparazione tissutale. Negli anziani la mancanza di sonno può contribuire alla sarcopenia, ossia la perdita di tessuto muscolare.

 

Un sonno inadeguato influisce negativamente sulla salute metabolica, favorisce l’obesità, aumenta i livelli di insulina, diminuisce la regolazione dello zucchero nel sangue, innesca il grasso addominale anomalo ed alza la pressione sanguigna.[Rae DE e coll. One night of partial sleep deprivation impairs recovery from a single exercise training session. Eur J Appl Physiol. 2017 Apr;117(4):699-712.]

 


 

 

In uno studio pubblicato su Ergonomics da Korpinen L e coll. dell’università di Tampere, Finlandia, ci si è proposti di valutare il possibile rapporto tra i sintomi autoriferiti al collo (dolore o intorpidimento) e utilizzo di computer e cellulari. Lo studio trasversale è stato effettuato inviando un questionario a 15.000 soggetti in età lavorativa: il 15,1% di tutti i rispondenti (6.121) ha riferito sintomi fisici frequenti al collo.

 

I risultati hanno mostrato che i soggetti presentavano sovente molti altri sintomi e che il 49% utilizzava quotidianamente il computer e l’83,9% il cellulare. Sono stati confrontati i sintomi fisici e mentali dei soggetti con i sintomi al collo. Sono state riscontrate differenze significative tra i sintomi fisici e mentali e l’utilizzo del cellulare e del computer.
I soggetti con sintomi frequenti al collo soffrivano sovente di altri sintomi (per esempio spossatezza sul lavoro). I risultati indicano che in futuro si dovrà tenere in considerazione la possibilità della presenza di un’associazione tra i sintomi al collo dei soggetti e l’utilizzo del cellulare o del computer.

 

Tra i tipici sintomi relativi ai disturbi muscoloscheletrici, il dolore cervicale è uno dei più comuni. Nella popolazione adulta, studi epidemiologici hanno calcolato una prevalenza dal 30% al 50% con associazione di disabilità associate fino al 11%. Revisioni sistematiche precedenti hanno evidenziato anche che questo sintomo è solitamente più frequente tra le donne, tende ad aumentare con l’età e presenta una prevalenza non irrilevante anche in età giovanile, con un tasso del 15–30% degli adolescenti che riferiscono di avvertire dolore al collo almeno una volta a settimana.
[Korpinen L e coll. Self-reported neck symptoms and use of personal computers, laptops and cell phones among Finns aged 18-65. Ergonomics. 2013;56(7):1134-46.]

 


 

 

Uno studio del National Bureau of Economic Research ha trovato che l’attività sessuale era il più forte fattore predittivo della felicità: più si fa sesso, più si è felici.
Il tasso di felicità aumentava progressivamente negli uomini che avevano rapporti sessuali due-tre volte al mese, una volta alla settimana, due-tre volte la settimana, quattro volte la settimana e sempre di più.

 

Non sorprende quindi che anche i pazienti cardiopatici vogliano fare sesso. La disfunzione erettile è uno dei maggiori sintomi di previsione di attacco cardiaco perché le malattie vascolari colpiscono i piccoli vasi del pene prima delle grandi arterie coronariche che riforniscono il cuore. Dariusz Kalka del Cardiosexology Unit, Department of Pathophysiology, Medical University of Wroclaw, Polonia, ha pubblicato su Archives of Medical Science uno studio in cui ha visto che anche se i problemi di erezione sono comuni in pazienti cardiopatici, solo il tre per cento dei cardiologi affrontano la questione del sesso con i loro pazienti.

 

Il sesso è centrale per la salute ed il benessere dei pazienti cardiopatici e quindi dovrebbe essere un argomento importante da affrontare tra medico e paziente.
[Kalka D e coll. Sexual health of male cardiac patients – present status and expectations of patients with coronary heart disease. Arch Med Sci. 2017 Mar 1;13(2):302-310.]

 

 

Molte persone includono nella loro dieta prodotti caseari magri o completamente senza grassi, come il latte, lo yogurt e il formaggio, perché alcuni studi mostrano che potrebbero favorire la perdita di peso. Alcuni studiosi hanno rilevato che coloro che mangiavano latticini erano più magri di chi non ne mangiava, e che questi cibi influenzavano le sostanze chimiche e gli ormoni che controllano l’appetito. Nessuno studio però ha dimostrato che aumentare l’introito di latticini aiuti a perdere peso.

 

Una meta-analisi che confronta i risultati di 13 studi clinici, condotta da Shokouh Onvani del Food Security Research Center della Isfahan University of Medical Sciences, in Iran, pubblicata su Clinical Nutrition ha concluso che consumare 500 millilitri di latte diminuiva l’appetito e favoriva il senso di sazietà, soprattutto nel secondo pasto della giornata. Bere latte non è la magica cartuccia della perdita di peso, ma è un’eccellente fonte di proteine, calcio, energia e liquidi e rappresenta una parte importante di una dieta per gli atleti.
[Onvani S e coll. Dairy products, satiety and food intake: A meta-analysis of clinical trials. Clin Nutr. 2017 Apr;36(2):389-398.]

 


 

 

Sulla prestigiosa rivista Cell, pubblicata a Cambridge nel Massachusetts, il prof. Zeevi del Department of Molecular Cell Biology, Weizmann Institute of Science, Israel, ha pubblicato un importante studio in cui giunge alle conclusioni che contare le calorie non è più il meccanismo unico per capire la risposta al cibo di una persona, in termini di ingrassamento o dimagramento, perché le calorie stesse e la composizione del pasto non riescono ad indicare il destino metabolico delle stesse introdotte nell’organismo.

 

Sarebbero piuttosto l’infiammazione e il microbioma intestinale dominante i fattori che orientano in una direzione o nell’altra. Lo studio di Zeevi e i successivi lavori derivati da questo hanno stabilito che le uniche possibili scelte nutrizionali che diano una specifica direzione alla crescita glicemica dopo un carico alimentare dipendono da una dieta del tutto individualizzata, che deve tenere appunto conto anche dell’infiammazione e della diversa composizione del microbioma intestinale.

 

Dopo aver somministrato oltre 45.000 pasti ad una coorte di 800 persone i ricercatori hanno trovato una elevatissima variabilità nella risposta dell’innalzamento glicemico a seguito di pasti assolutamente identici. Le raccomandazioni dietetiche “universali” e “buone per tutti” hanno quindi una scarsa o almeno limitata utilità. Quando il livello di infiammazione e la composizione dominante del microbioma intestinale sono stati presi in considerazione, la risposta glicemica alla introduzione di cibo diventa invece prevedibile e statisticamente ripetibile.

 

Viene ripreso il fatto che il BAFF (B-Cell Activating Factor) è profondamente correlato alla assunzione alimentare di cibi individualmente in eccesso, provoca resistenza insulinica e che un particolare microbioma intestinale possa determinare il recupero della tolleranza orale verso allergeni alimentari, anche nel caso di allergie gravi con shock anafilattico come quella dovuta alle arachidi. Il controllo dell’allergia è reso molto più agevole dalla somministrazione contemporanea di un probiotico.

 

Zeevi e il suo staff giungono alla conclusione che nel momento in cui si affronta una scelta dietetica, la personalizzazione non consiste quindi nel fatto che si preferiscano le lenticchie o i fagioli, oppure nella somministrazione di verdure cotte piuttosto che crude, ma nella individuazione del livello infiammatorio indotto dagli alimenti e nelle caratteristiche compositive del microbioma. Il problema che balza subito agli occhi è che tale percorso può essere fatto solamente in un ambito ultraspecialistico e di ricerca.
[Zeevi D e coll. Personalized Nutrition by Prediction of Glycemic Responses. Cell. 2015 Nov 19;163(5):1079-1094.]

 


 

 

“Glycemic index, glycemic load and blood pressure: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials” è un importante lavoro pubblicato da Evans e coll. sull’American Journal of Clinical Nutrition, che afferma come il rischio legato all’ipertensione arteriosa non debba essere sottovalutato: ottenere un buon equilibrio pressorio è indispensabile per tenere sotto controllo il rischio cardiovascolare complessivo.

 

Mantenere la pressione entro i limiti desiderabili (135 mmHg per la sistolica e 90 mmhG per la diastolica) richiede però un buon controllo sia sulle scelte alimentari sia sullo stile di vita, che vede l’attività fisica come momento fondamentale.
In questa strategia globale è opportuno considerare anche l’indice glicemico dei cibi che, a sua volta, determina il carico glicemico dei pasti: la review sui principali studi sull’associazione tra indice glicemico, carico glicemico e pressione arteriosa, ha confermato che ridurre rispettivamente i primi due influisce positivamente anche sulla pressione dei soggetti sani, migliorando in questo modo il profilo di rischio cardiovascolare nel tempo.

 

Un pasto a basso carico glicemico include quantità non eccessive di alimenti con un ridotto indice glicemico, quali legumi, verdura, frutta non frullata o spremuta, semi, cereali integrali, e limita i cereali raffinati, i loro derivati e gli zuccheri semplici aggiunti. I risultati presentati nella review dimostrano che il consumo regolare di una dieta a basso indice glicemico/ carico glicemico ha ridotto sia la pressione sistolica sia la pressione diastolica di circa 2 mmHg.

 

Gli autori sottolineano che si tratta oggettivamente di diminuzioni modeste come entità, ma significative dal punto di vista statistico e clinico, perché sono state ottenute in soggetti complessivamente sani e perché paragonabili ai risultati di una moderata riduzione dell’apporto di sale che, secondo i dati degli studi osservazionali, ridurrebbe il rischio cardiovascolare del 5% circa. [Evans CE e coll. Glycemic index, glycemic load and blood pressure: a systematic review and meta-analysis of randomized controlled trials. Am J Clin Nutr. 2017 May;105(5):1176-1190.]

 


 

 

Le “vampate di calore”, tra i più comuni sintomi della menopausa, non solo interferiscono con la qualità della vita, ma secondo un articolo pubblicato su Menopause, la rivista della North American Menopause Society, da parte di Rebecca Thurston dell’Università di Pittsburgh in Pennsylvania, potrebbero segnalare una disfunzione vascolare, preludio di malattie cardiache, specie nelle donne in menopausa precoce, tra i 40 e i 53 anni. Lo studio, ha investigato una coorte femminile di non fumatrici di età compresa tra 40 e 60 anni e ha voluto verificare la relazione tra “vampate”, fisiologicamente valutate, e funzioni delle cellule endoteliali di rivestimento vascolare.

 

L’effetto negativo del sintomo sulla capacità di vasodilatazione è stato documentato solo nel percentile più giovane delle partecipanti, mentre nella fascia di età tra 54 e 60 anni non è emersa alcuna significatività statistica in termini di associazione tra disfunzione endoteliale e rischio cardiaco. L’integrità funzionale dell’endotelio vascolare è di importanza fondamentale non solo per la coagulazione del sangue, ma anche per il controllo dell’infiammazione, della funzione immunitaria e della formazione di nuovi vasi sanguigni. Anatomicamente l’epitelio è quella linea cellulare che riveste la parte interna delle arterie che è a stretto contatto con il flusso sanguigno e su cui si pensa possano agire i fenomeni nocivi indotti, ad esempio, dai radicali liberi con microlesioni che possono poi indurre degenerazioni del tessuto e aprire la strada all’aterosclerosi.

 

Ritornando al nostro studio, i ricercatori hanno ipotizzato che le disfunzioni epiteliali possano portare addirittura a disturbi coronarici, per cui il monitoraggio della precocità di comparsa delle vampate in menopausa potrebbe aiutare i medici a rilevare un eventuale rischio cardiovascolare, dando loro modo di intervenire sullo stile di vita della paziente. Tra gli indirizzi di prevenzione, oltre l’eventuale non utilizzo di farmaci specifici, vi sono le indicazioni per una corretta educazione alimentare e un’attività fisica svolta con costanza.

 

In questo caso bisogna rilevare che, troppo spesso viene indicata solamente l’attività di tipo aerobico, scordandosi di quella contro resistenza. L’articolo si conclude puntualizzando come la vasodilatazione ridotta era presente nelle donne più giovani, rispetto alle coetanee che avevano manifestato il disturbo in età più avanzata o addirittura non lo avevano mai presentato. Tutto ciò conduce a non sottovalutare un disturbo considerato banale e conseguente alla menopausa, con la necessità di condurre ulteriori studi per meglio quantificare il fenomeno rilevato. [Thurston RC e coll. Physiologically assessed hot flashes and endothelial function among midlife women. Menopause. 2017 Aug;24(8):886-893.]

 


 

 

Uno specifico allenamento della forza può ridurre il dolore a collo e spalle che colpisce gli impiegati; tuttavia, la combinazione ottimale di frequenza e durata degli esercizi resta sconosciuta. Uno studio condotto da ricercatori del National Research Centre for the Working Environment, Copenhagen, Danimarca pubblicato sul British Journal of Sports Medicine cerca di dimostrare come distribuire al meglio un’ora settimanale di allenamento della forza dei muscoli del collo e delle spalle.

 

Sono stati reclutati 447 impiegati con e senza dolore a collo e/o spalle e sono stati assegnati in maniera casuale a uno dei 4 gruppi: 1×60 (1WS), 3×20 (3WS) o 9×7 (9WS) minuti settimanali di allenamento della forza ad alta intensità sotto supervisione per una durata di 20 settimane, oppure a un gruppo di riferimento che non eseguiva alcun allenamento (REF).

 

L’outcome primario era il dolore autoriferito a collo e spalle (scala 0-9) e l’outcome secondario la disabilità lavorativa (Disabilità a braccia, spalle e mani (DASH). I risultati indicano che un’ora di allenamento della forza ha provocato una riduzione del dolore a collo e spalle che colpisce gli impiegati.

 

Nonostante i tre diversi gruppi che hanno eseguito l’allenamento non abbiano mostrato alcuna differenza statistica nella riduzione del dolore al collo, soltanto i gruppi 1WS e 3WS hanno evidenziato una diminuzione della disabilità DASH. Lo studio suggerisce di impiegare una certa flessibilità nella distribuzione temporale degli specifi ci allenamenti della forza sul luogo di lavoro. [Andersen CH e coll. Influence of frequency and duration of strength training for effective management of neck and shoulder pain: a randomised controlled trial. Br J Sports Med. 2012 Nov;46(14):1004-10.]

 

 

 

 

 

a cura del Comitato Scientifico ISSA Europe

 

 

 

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