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Calcio, Vitamina D, Salute e Rendimento.

Il CALCIO NELL’ORGANISMO

Funzioni e regolazione dell’omeostasi.

 

Il calcio è un elemento essenziale per l’organismo e deve essere necessariamente introdotto con la dieta. Il principale sito di deposito del calcio è lo scheletro, dove svolge un’importante funzione strutturale, essendo il principale costituente della componente minerale ossea; l’osso è inoltre una riserva attiva di calcio, potendo rilasciare ed assorbire il minerale continuamente nel corso della vita. Oltre a questo, il calcio ha un ruolo fondamentale nella contrazione muscolare e nella trasmissione dei segnali nervosi, partecipa all’emocoagulazione, agisce come tampone intracellulare, regola l’espressione genica e media numerose reazioni cellulari.

 

La presenza di calcio nell’organismo (omeostasi) è finemente regolata attraverso il controllo della sua concentrazione ematica, che può variare entro limiti piuttosto ristretti (8,5-10,5mg/ml). Tale regolazione si realizza ad opera di ormoni, in particolare paratormone (PTH), vitamina D e calcitonina che agiscono sull’intestino, sulle ossa e i reni in risposta alle variazioni dei livelli di calcio circolante. In generale, quando i livelli plasmatici di calcio sono bassi (o i livelli di fosfato sono alti), il paratormone viene rilasciato dalle cellule paratiroidee.

 

Questo da un lato aumenta la calcemia e dall’altro promuove l’azione della vitamina D, con conseguente incremento dell’assorbimento di calcio dall’intestino, riduzione dell’escrezione di calcio a livello renale e stimolazione del rilascio di calcio dal tessuto osseo. Diversamente, alti livelli ematici di calcio provocano il rilascio di calcitonina prodotta dalle cellule parafollicolari della tiroide, questo inibisce la mobilizzazione di calcio dall’osso e ne stimola la sua deposizione.

 

Fabbisogni

 

I fabbisogni di calcio nell’uomo variano a seconda dell’età e delle situazioni fisiologiche. Sono più alti nell’età evolutiva con un massimo durante l’adolescenza (1200 mg/die) per poter garantire il completo raggiungimento del picco di massa ossea (massima densità minerale dell’osso). Nell’età adulta le necessità nutrizionali di calcio si abbassano a circa 800 mg/die.

 

Durante la gravidanza e l’allattamento si consiglia di aumentare l’assunzione giornaliera a 1000 mg per prevenire il depauperamento del patrimonio minerale della donna e così pure nell’anziano, in cui oltre ad esserci una riduzione dell’assorbimento intestinale si registra una maggiore perdita minerale ossea età correlata.

 

In campo sportivo l’assunzione giornaliera raccomandata è di circa 1000 mg ma può aumentare fino a 1500 mg in adolescenti atleti impegnati in frequenti ed intensi allenamenti o nelle adolescenti/giovani adulte con problemi di amenorrea, disordini alimentari e fratture da stress (triade della donna atleta).

Assorbimento e biodisponibilità

 

I sali di calcio sono poco solubili e ciò rende problematico il loro assorbimento. Diversi fattori possono aumentare o diminuire l’assorbimento del calcio; il più importante di questi è la vitamina D, la quale regola la sintesi di proteine trasportatrici a livello del duodeno, responsabili nel garantire un trasporto attivo di calcio dal lume intestinale al plasma. L’assorbimento intestinale di calcio è, inoltre, regolato passivamente dalla quantità di calcio apportata con gli alimenti, indipendentemente dall’attività della vitamina D.

 

La disponibilità di calcio viene poi influenzata positivamente da fattori nutrizionali quali il lattosio del latte e le proteine (soprattutto le frazioni bioattive della caseina), mentre viene ostacolata da sostanze di origine vegetale, quali fitati (contenuti in molti cereali, semi e legumi), ossalati (presenti soprattutto in spinaci e barbabietole) e dalla fibra, che con il calcio formano complessi insolubili. A modificare l’assorbimento di calcio interviene anche la quantità di fosforo presente negli alimenti; un rapporto calcio:fosforo inferiore a 1 sembra indurre un minor assorbimento di calcio a livello intestinale.

 

Durante l’infanzia e l’adolescenza, la capacità di assorbire calcio è maggiore rispetto ad altre età e ciò è dato dalla necessità fisiologica di raggiungere un picco di massa ossea ottimale. L’età avanzata modifica negativamente la biodisponibilità di calcio, sia attraverso una riduzione dell’assorbimento intestinale, sia a causa di un maggior riassorbimento e minore deposizione di calcio a livello dello scheletro.

 

ATTIVITA’ FISICA, MASSA OSSEA E SALUTE

 

L’esercizio fisico è un forte condizionante che agisce sul rimodellamento osseo, cioè quell’insieme di processi che portano alla formazione di un tessuto minerale più forte e con una geometria strutturale che resiste meglio allo stress meccanico. Oltre agli effetti diretti del carico, l’esercizio fisico promuove una serie di risposte ormonali (GH, IGF-1, ormoni sessuali) con effetti trofici su tutte le strutture dell’osso.

 

I benefici dell’attività fisica sulla massa ossea riguardano ogni fascia d’età: durante la crescita, per consentire la costruzione di uno scheletro con appropriata massa e densità, nel corso della vita adulta, per garantire il mantenimento della salute dell’osso, in età avanzata, per prevenire o rallentare l’evoluzione del declino strutturale e funzionale dell’osso (osteoporosi). L’osteoporosi è una condizione caratterizzata da perdita di calcio dalle ossa che diventano tanto fragili e porose da fratturarsi anche a seguito di blandi stress meccanici. Uno stile di vita che preveda movimento ed adeguata assunzione di calcio rappresenta il miglior alleato per la prevenzione ed il trattamento dell’osteoporosi.

Anche in campo sportivo la salute delle ossa è fondamentale. Uno scheletro resistente è in grado di assorbire i microtraumi legati all’esecuzione dei gesti atletici e quindi permette di evitare o ridurre gli infortuni. L’attività fisica in generale ed in particolare tutti gli sport che impongono un certo carico meccanico sullo scheletro influenzano positivamente la densità minerale ossea (BMD), un parametro che identifica la concentrazione di calcio a livello della matrice del tessuto scheletrico. Atleti che praticano il sollevamento pesi o attività come il football, il basket ed il rugby, hanno una BMD più elevata rispetto a sport a basso impatto come il nuoto o il ciclismo.

Qualora l’attività fisica diventi eccessiva si possono verificare situazioni metaboliche e meccaniche che mettono a rischio l’integrità dell’osso. Questo è un problema che interessa soprattutto le atlete ed in particolare coloro che praticano sport a forte componente estetica come la ginnastica o la danza, in cui allo stress degli allenamenti si sommano spesso diete ipocaloriche (e di conseguenza anche ipocalciche) per mantenere valori molto bassi di massa grassa.

Un quadro che porta ad alterare la sintesi degli estrogeni con drammatiche ripercussioni sui cicli mestruali (dismenorrea/amenorrea) e conseguente rischio di fratture da stress. Negli atleti, inoltre, gli apporti alimentari di calcio sono spesso insufficienti (come segnalato in numerosi studi) così come quelli di vitamina D, la cui sintesi endogena, soprattutto nei mesi invernali, non è in grado di soddisfare le richieste imposte da uno stile di vita particolarmente attivo.

 

VITAMINA D E SPORT

 

Il 90% della secrezione della vitamina D è legata all’esposizione solare, per irradiazione ultravioletta del 7-deidrocolesterolo a livello cutaneo che porta alla formazione del colecalciferolo o vitamina D3. La vitamina D3 è poi metabolizzata a livello epatico e renale con due processi d’idrossilazione trasformandosi nell’1,25-diidrossi-vitamina D o calcitriolo (la forma attiva della vitamina D). Il restante 10% della vitamina D circolante proviene dagli alimenti che ne sono ricchi, quali pesci grassi come salmone e sardine, latte e derivati (burro e formaggi stagionati), uova.

 

La vitamina D non è importante solo per l’assorbimento del calcio e per il suo ruolo nel metabolismo osseo. Dati della letteratura scientifica indicano, infatti, come la vitamina D possa migliorare la prestazione fisica, sia aumentando la forza muscolare (per azione favorente sui meccanismi di rigenerazione del muscolo scheletrico), sia attraverso un’azione regolatrice e modulatrice dei processi immunologico-infiammatori normalmente coinvolti durante il recupero fisico. Per la sua azione trofica su osso e muscolo, la vitamina D è inoltre fondamentale per la prevenzione degli infortuni muscolo-scheletrici e per favorire il recupero post-traumatico.

 

CARENZA DI VITAMINA D E CALCIO: RUOLO DELLA DIETA

 

Per molto tempo si è pensato che il fabbisogno di vitamina D fosse garantito senza particolari problemi dalla semplice esposizione solare. Se per molte persone questo può essere vero (almeno nel corso della stagione estiva), assolutamente non lo è per chi si allena regolarmente, soprattutto nella stagione autunnale e invernale in cui spesso si concentrano le fasi più dure della preparazione fisica.

Numerosi lavori scientifici indicano livelli carenziali di vitamina D (inferiori a 30 ng/ml) in soggetti sportivi, passando dall’autunno all’inverno ed in chi pratica attività fisica indoor, a cui si correlano più bassi valori di BMD.

 

Livelli ematici carenziali di vitamina D (dosati come 25(OH)D) sembrano inoltre essere significativamente legati a una scarsa introduzione con la dieta (tabella 1).

 

 

 

Tabella 1 – Livelli sierici di vitamina D (25-idrossi-vitamina D).

 

Studi epidemiologici su atleti adulti e adolescenti riportano assunzioni giornaliere che in certi casi non raggiungono nemmeno i 200 UI/die, mentre le attuali raccomandazioni consigliano range dieci volte superiori (1500 – 2000 UI/die). A bassi livelli plasmatici di 25(OH)D spesso si accompagnano intake dietetici giornalieri di calcio con valori borderline (tra 400  e 900 mg).

 

In molti casi una carenza di vitamina D e calcio non è correlabile ad una dieta inadeguata sotto il profilo calorico, portando a considerare come certe categorie di alimenti, soprattutto da parte dei giovani, vengano trascurate e sostituite con altre di più bassa qualità nutrizionale. In particolare per il calcio, la drastica riduzione o in certi casi l’esclusione di cibi che rappresentano fonti altamente biodisponibili del minerale (prodotti lattiero-caseari, alimenti arricchiti, acque ricche di calcio) consegue a rendere difficile il raggiungimento dei fabbisogni giornalieri.

 

Se bassi livelli di calcio e vitamina D nell’organismo possono già essere un problema per soggetti che hanno una vita sedentaria o poco attiva, lo sono inevitabilmente per soggetti fortemente impegnati in attività sportive, considerando il ruolo dei due nutrienti nei complessi processi che direttamente e/o indirettamente regolano lo stato di salute e la prestazione fisica. Un deficit di vitamina D, inoltre, si sta sempre di più correlando con patologie metaboliche (obesità e diabete di tipo II), cardiovascolari e tumorali.

 

Da questi dati emerge quindi la necessità di fare appropriate valutazioni sul consumo giornaliero e settimanale di determinate categorie di alimenti in cui calcio e vitamina D siano particolarmente concentrati e possiedano un’elevata disponibilità.

 

 

I PRODOTTI LATTIERO-CASEARI

Benefici e possibili rischi per la salute dall’antichità ad oggi

 

Nella storia del latte le credenze popolari permeavano la vita quotidiana e le scarse conoscenze scientifiche non permettevano di chiarire il confine tra alimenti e medicamenti.

Nella medicina antica e medievale, il latte era considerato una “superfluità” dell’organismo. È stato sempre noto il suo aspetto mutevole dovuto alla diversità degli animali da cui proviene, dalla loro alimentazione ed età, dallo stato crudo o cotto e dalle condizioni climatiche-ambientali. Inizialmente queste sue volubili caratteristiche avevano creato intorno al latte un grande interesse ma anche una certa diffidenza. Gli antichi studiosi hanno sempre riconosciuto il suo elevato potere nutritivo, ma proprio per la difficoltà nella sua classificazione, il latte aveva inizialmente assunto, nella tradizione medica, un ruolo più che altro di medicamento.

Le virtù attribuite ad esso furono molteplici. Non mancano testimonianze che affermano la sua efficacia nel ravvivare il colorito della pelle, nello sciogliere le occlusioni del fegato, nel lubrificare l’intestino, nel combattere le ulcere viscerali ed anche nel lenire i bruciori di stomaco. Nel I secolo d.C. si sosteneva perfino che potesse essere un rimedio all’avvelenamento.

 

Sebbene da sempre la scienza medica si sia interessata allo studio delle peculiarità del latte ed alle sue applicazioni in campo medico e nutrizionale, fu nel XV secolo che si cominciò a trattare l’argomento in modo sistematico. Secondo gli antichi medici, il latte animale non era un alimento appropriato per l’uomo: Ippocrate e Galeno lo consigliavano solo per uso medicinale, sottolineando i numerosi pericoli del latte sotto il profilo alimentare. Questo era facilmente comprensibile se si considera il quadro geografico dove la cultura greco-latina si sviluppava: l’area del Mediterraneo aveva, infatti, condizioni ambientali sfavorevoli al consumo di un prodotto delicato e deperibile come il latte.

 

Il primo ad occuparsi dello studio di questo alimento fu probabilmente Pantaleone da Confienza, medico vicentino, che pubblicò nel 1477 la “Summa lacticiniorum”, un trattato sul latte e sui latticini che, benché fosse una dissertazione filosofica più che un trattato scientifico, aprì la strada ad una valorizzazione dell’argomento dal punto di vista terapeutico. Egli, nel 1459, limitava l’uso di questi alimenti solo alle persone in perfetta salute; il latte doveva essere appena munto e consumato a digiuno, ossia ad almeno tre ore di distanza dai pasti, astenendosi dall’immediato esercizio di attività fisiche impegnative. Altri trattati hanno poi ripreso l’argomento occupandosi in modo specifico delle virtù terapeutiche del latte e del suo siero per la cura di molteplici malattie.

 

Nell’epoca moderna le scoperte farmacologiche e gli studi scientifici hanno deputato alla cura delle malattie altri metodi senza dubbio più efficaci rispetto all’antichità. Resta il fatto, però, che l’insieme degli studi e delle ricerche di tipo clinico, epidemiologico e sperimentale, fino ad oggi condotte, ha chiarito come le abitudini alimentari siano capaci di condizionare lo stato di salute della popolazione. In particolare, è stata dimostrata la relazione tra stili nutrizionali e insorgenza delle malattie più frequenti ed importanti come patologie cardiovascolari, diabete, obesità, ipertensione, osteoporosi e atumori, soprattutto quelli dell’apparato digerente, della mammella, della prostata e dell’utero.

 

I prodotti lattiero-caseari nell’alimentazione umana

 

Esistono numerosi dati in letteratura che riferiscono l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di prodotti lattiero-caseari per raggiungere i corretti livelli di assunzione di calcio, con particolare attenzione per bambini, adolescenti e giovani adulti. Oltre al calcio i prodotti lattiero-caseari spiccano per la presenza di fosforo, proteine di elevato valore biologico e vitamine, sia idrosolubili (gruppo B), sia liposolubili (A, D, E e K).

 

L’elevata biodisponibilità di calcio nel latte vaccino è probabilmente il risultato di un elevato contenuto di calcio (mediamente 120 mg/100 ml) e del suo legame con le caseine del latte che, analogamente al formaggio ed altri prodotti, ne migliorano l’assorbimento. I caseinofosfopeptidi (CPPs) sono una miscela di peptidi a diverso peso molecolare rilasciati dall’idrolisi enzimatica della caseina del latte nel corso della digestione. Numerosi studi mostrano che i CPPs inibiscono la precipitazione del calcio fosfato nell’intestino e migliorano l’assorbimento passivo del calcio attraverso la parete intestinale, aumentandone la biodisponibilità.

 

Il trasporto passivo del calcio è la principale via di assorbimento richiesto per la calcificazione ossea. I CPPs formano, inoltre, sali organo-fosfati legandosi con elementi traccia (ferro, manganese, rame, zinco e selenio) importanti per la salute delle ossa. Secondo le linee guida per una sana alimentazione destinate alla popolazione italiana, il corretto apporto di prodotti lattiero-caseari comprende: tre porzioni al giorno di latte (375 ml) o yogurt (375 g) e tre porzioni settimanali di formaggio (ogni porzione equivale a 100 g di formaggio fresco o 50 g di formaggio stagionato).

 

Tali porzioni portano alla copertura del 43% del fabbisogno di calcio nelle fasce più bisognose (bambini e adolescenti, donne in menopausa) e di oltre il 60% di un maschio adulto o di una donna di età compresa tra i 30 e i 49 anni. I formaggi stagionati rappresentano, inoltre, una variabile ma non trascurabile fonte di vitamina D (fino a 50 mcg/100 g).

 

Negli ultimi anni il consumo di prodotti lattiero-caseari è stato oggetto di numerose controversie. A screditarne il prezioso ruolo nell’alimentazione umana sono stati alcuni studi che hanno valutato gli effetti sull’organismo di proteine, grassi saturi e colesterolo, fosfati e sodio (più o meno concentrati a seconda se si parla di latte, yogurt o formaggi) ed il loro impatto sulla salute. Come spesso succede in campo scientifico, tali studi hanno osservato modificazioni su singoli parametri biochimici, “isolatamente” e senza considerare le profonde interazioni che lo stile di vita, l’età e il sesso hanno con la nutrizione.

 

Indagini più recenti e maggiormente sofisticate da un punto di vista statistico (meta-analisi) invitano senza dubbio a rivedere le “vecchie” posizioni, individuando nei prodotti lattiero caseari un insostituibile fonte di proteine e calcio.

 

Prodotti lattiero-caseari e correlazione con l’insorgenza di patologie

 

Numerosi studi hanno tentato di correlare il consumo di latte e derivati con l’insorgenza di patologie. Al momento però è quasi impossibile distinguere l’effetto causato dai vari tipi di latte, e soprattutto dalle centinaia di derivati e formaggi tipici di tante culture gastronomiche, con pattern alimentari eterogenei, spesso usati in aree geografiche solo regionali. I dati disponibili in letteratura si riferiscono quindi alla categoria “generica” del latte e dei suoi derivati, freschi o conservati, a produzione industriale o non, con i numerosi limiti che una tale generalizzazione può comportare.

 

Malattie cardiovascolari

 

Da tempo si sospetta un possibile rischio cardiovascolare legato al consumo di prodotti lattiero-caseari. La spiccata presenza di grassi saturi, colesterolo e sodio, soprattutto nei formaggi stagionati, è stato infatti considerato un fattore di rischio per l’insorgenza di patologie cardiovascolari, obesità e sindrome metabolica.

 

Tuttavia, oltre a dover quantificare la perdita in termini nutrizionali che si avrebbe su calcio e proteine nobili escludendo completamente o riducendo drasticamente questi alimenti dalla dieta, bisognerebbe fare anche opportune considerazioni sulla ricchezza di alcuni nutrienti, presenti soprattutto in alcuni formaggi stagionati, e che orientativamente avrebbero invece un effetto protettivo su cuore e vasi sanguigni: acido linoleico coniugato (CLA) ad azione antiaterogenica e antinfiammatoria; calcio ad azione ipotensiva; acido folico, vitamina B6 e B12, che controllano i livelli ematici di omocisteina, uno dei fattori principali di rischio cardiovascolare.

 

Un approccio razionale dovrebbe dunque prendere in considerazione la quantità complessiva di sodio e grassi sul regime alimentare totale e non fermarsi soltanto a valutare la loro presenza in un particolare alimento. Inoltre, bisogna sempre tenere presente il livello di attività fisica dei soggetti, sia perché il lavoro muscolare può cambiare di molto gli effetti di un consumo più frequente di alimenti ricchi di grassi e sodio, sia perché le esigenze energetico-ossidative, metaboliche e saline di uno sportivo (in particolare per le attività di lunga durata) sono diverse rispetto a quelle di un soggetto sedentario, richiedendo un’alimentazione più ricca anche di queste sostanze.

 

Cancro

 

Stabilire una stretta correlazione tra consumo di alimenti lattiero-caseari e insorgenza di tumore non è cosa semplice. Le posizioni ufficiali prese dalle società scientifiche internazionali sui rapporti tra latte, derivati e queste patologie (per la maggior parte delle forme tumorali) al momento non sono conclusive né per un effetto protettivo, né per un aumentato rischio.

 

Una rete di studi caso-controllo condotta in Italia dall’istituto Mario Negri di Milano dal 1991 al 2002 associa il consumo di latte ad un modesto incremento del rischio di tumore alla prostata, ma anche ad una riduzione del rischio per i tumori del colon, della mammella e dell’ovaio. A simili conclusioni è giunto anche il “World Cancer Research Fund and American Institute for Cancer Research” riportando una probabile associazione tra l’assunzione di latte ed un minor rischio di cancro al colon-retto ed una possibile associazione tra diete ricche di calcio ed un aumento del cancro alla prostata. Per quanto riguarda il tumore alla prostata, alcuni studi hanno stimato una soglia quotidiana di 2 g di calcio di origine casearia oltre il quale il rischio di contrarre la patologia può umentare del 30 % rispetto a chi ne assume meno di 1 g/die.

 

Inoltre, studi dimostrano che le sostanze nutritive presenti nel latte stimolano la proteina mTORC1, un importante regolatore implicato nella regolazione della crescita e proliferazione cellulare, dell’autofagia e della sintesi proteica cellulare che viene attivato dalla leucina, dall’insulina, dall’IGF-1 e dal glucosio. Elevati livelli di mTORC1 sono stati riscontrati in soggetti affetti da tumori alla prostata e questo sta ulteriormente avvalorando i dati a favore di una correlazione tra questi alimenti e il loro possibile effetto di stimolo su questa categoria di neoplasie. Inoltre, sembra che l’utilizzo di latte artificiale in età pediatrica (maggiormente concentrato di fattori nutrizionali e di crescita), al posto del latte materno, proprio per la maggiore stimolazione sull’mTORC1 predisponga ad un più alto rischio di sviluppare carcinoma prostatico in età adulta.

 

Osteoporosi

 

Un’alimentazione ricca di proteine e fosfati (particolarmente presenti nei formaggi stagionati) è stata a lungo ritenuta un fattore di rischio per l’osteoporosi. L’ipotesi fatta individuava proteine e fosfati come sostanze che riducendo il pH dell’organismo (acidificazione) richiedono un’appropriata azione tampone con conseguente effetto demineralizzante sull’osso, essendo lo scheletro la principale riserva di minerali alcalini.

 

L’aumento dei livelli di calcio nelle urine (calciuria) riscontrabile nel corso di regimi dietetici iperproteici (e ricchi di fosfati) ne faceva quindi ritenere possibile una correlazione positiva con lo sviluppo di osteoporosi. In realtà la calciuria non rappresenta una misura unica e diretta dell’osteoporosi, e se si vuole fare uno studio approfondito sulla salute dell’osso bisogna considerare un insieme di parametri: bilancio del calcio nell’organismo (calcio assorbito Vs calcio eliminato con urine e feci), indici di riassorbimento osseo, BMD e status della vitamina D.

 

Studi abbastanza recenti hanno dimostrato che una dieta con 0,8 g/Kg/die di proteine riduce la quantità di calcio assorbito a livello intestinale, portando a un aumento del rilascio di PHT che a sua volta stimola fortemente la liberazione di calcio dal tessuto osseo. Inoltre, una dieta ricca di proteine (di frequente impiego tra gli atleti) aumenta i livelli circolanti di IGF-1, un fattore di crescita che gioca un ruolo importante sulla formazione e sul mantenimento dell’integrità dell’osso.

 

Altri studi riportati suggeriscono la possibile correlazione positiva tra la massa ossea misurata in vari punti dello scheletro e l’assunzione di proteine, in bambini e adolescenti, donne in pre-menopausa e post-menopausa e negli uomini. Anche in relazione all’aumentato rischio di fratture, uno studio svolto su più di 40.000 donne americane mostra che un maggior tenore proteico della dieta è associato alla riduzione del rischio di frattura dell’anca. Inoltre, è stato dimostrato che diete contenenti 2,1 g/kg peso corporeo sono associate all’aumento dei marker biochimici della rigenerazione ossea se confrontate con una dieta standard contenente 1,0 g di proteine per kg di peso corporeo.

 

La presenza di proteine e in particolare dei CPPs rende più efficace l’assunzione di calcio attraverso i prodotti lattiero-caseari, rispetto all’utilizzo di supplementi nel miglioramento della BMD.  Un effetto visibile sia in età scolare (10 – 12 anni), sia in età avanzata.

 

Il consumo di latte durante l’infanzia e l’adolescenza, contrariamente ai preconcetti diffusi, non è associato ad aumento di peso ed a un accumulo di massa grassa ma ad una più elevata statura. Mentre l’eliminazione a lungo termine di latte e formaggi è associata a una minore statura e BMD nei bambini e ad un maggiore rischio di fratture, con un aumento di circa 2,7 volte rispetto a diete che includono questi prodotti.

 

Anche per quanto riguarda i fosfati, evidenze scientifiche non hanno fatto registrate incrementi della calciuria o diminuzioni del bilancio del calcio su ampi range di assunzione di fosfati con la dieta o attraverso supplementazioni, e non confermano quindi il ruolo negativo del fosforo e del cosiddetto “carico acido” sulla salute dell’osso. Va ricordato che un’adeguata presenza di fosforo nella dieta di chi si allena regolarmente è indispensabile al metabolismo di carboidrati, lipidi e proteine e alla sintesi delle molecole fosfagene per il turn-over energetico.

 

CONCLUSIONI

 

Il consumo di alimenti lattiero-caseari come per tutte le altre categorie di alimenti va ponderato e messo in relazione con lo stile di vita delle persone. Essendo alimenti particolarmente ricchi di sostanze stimolanti da un punto di vista nutriceutico, inevitabilmente un loro eccessivo utilizzo può diventare problematico qualora si sia in presenza di soggetti adulti e sedentari. Diverso è il caso di soggetti in crescita o di soggetti sportivi altamente coinvolti da un punto di vista fisico, in cui si è di fronte a necessità metaboliche molto diverse, per i quali il consumo di questi prodotti andrebbe incoraggiato.

 

In campo sportivo si ricorre frequentemente all’uso d’integratori e supplementi per rinforzare l’apporto dietetico di svariate sostanze (proteine, aminoacidi, vitamine, minerali, eccetera). In questi prodotti i nutrienti vengono “isolati” tecnologicamente oppure inseriti in matrici molto diverse rispetto a come si troverebbero allo stato naturale, nell’intento di renderli maggiormente concentrati e in forme di più rapida assunzione (capsule, compresse, polveri).

 

Questi processi pur garantendo standard qualitativi e quantitativi elevatissimi forniscono nutrienti in molti casi meno biodisponibili rispetto agli alimenti tradizionali in cui la presenza di un complesso sistema di sostanze permette di ottenere migliori assimilazioni sulle singole molecole. In alcuni formaggi (ad esempio Parmigiano-Reggiano) gli elementi di origine rimangono nei loro naturali rapporti, vengono altamente concentrati e resi assolutamente assorbibili anche grazie al sistema produttivo e di stagionatura. Un prodotto che per sua struttura e composizione nutrizionale si adatta bene a molte situazioni tipicamente ricercate nell’alimentazione dello sportivo.

 

 

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a cura di Massimo Negro – Responsabile Servizio Nutrizione e Sport & Giuseppe D’Antona – Direttore Sanitario e della Ricerca Scientifica Centro di Medicina dello Sport Voghera, Università di Pavia

 

 

 

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