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Gemelli identici in tutto..o quasi: conseguenze dell’ambiente sull’invecchiamento!

“Come ogni anno, in prossimità della Convention ISSA, vorrei provare ad introdurre l’argomento di cui discuterò con i partecipanti nel corso del mio intervento.

 

 

Quest’anno vorrei attrarre la vostra attenzione su uno studio davvero interessante che è passato un po’ in sordina nei mesi scorsi: la comparazione dei meccanismi di invecchiamento cellulare in un caso più unico che raro, due gemelli monozigoti, di professione astronauti, uno dei quali ha trascorso quasi un anno nello spazio, sulla stazione spaziale NASA ISS (International Space Station) in orbita attorno alla Terra, mentre l’altro è rimasto a terra.

 

Entrambi i gemelli sono stati arruolati in uno studio comparativo (Astronaut Twins Study) che ha studiato una serie di parametri fisiologici e genetici, contemporaneamente, nei due soggetti.

I risultati, come vedremo, sono sorprendenti.

 

Come abbiamo visto in altri articoli, i concetti di epigenetica e di effetto dell’ambiente su alcuni parametri vitali degli organismi, stanno conquistando sempre più la ribalta nel corso dell’ultimo decennio. Prima di allora, la visione predominante dei meccanismi con i quali i viventi si adattano agli ambienti era prevalentemente quella collegata all’espressione del genoma: ogni individuo eredita un determinato assetto genetico dai genitori, il quale gli consente di esprimere una serie di proteine che ne determinano l’identità individuale e la capacità di rispondere, più o meno efficacemente, agli stimoli ambientali.

 

Per restare nel campo del fitness, possiamo pensare alla distinzione fenotipica tra i cosiddetti somatotipi umani.

Ectomorfi, mesomorfi ed endomorfi: tre categorie fenotipiche che descrivono con sufficiente accuratezza, non solo la disposizione e la composizione della massa magra e grassa e l’aspetto della maggior parte delle persone, ma anche e soprattutto le potenzialità relative di ogni gruppo, i punti deboli in allenamento, così come i rispettivi punti di forza, il tutto con correlazioni importanti sul metabolismo dei tre gruppi.

 

Diversi studi hanno evidenziato che a queste tre approssimative divisioni fenotipiche corrispondono diversi insiemi di geni, che “lavorano assieme” per determinare il somatotipo dello specifico individuo.
Naturalmente, questi geni vengono trasmessi con meccanismi noti di genetica tradizionale, e tutto questo quadro sembra condannare i portatori ad una realtà di immutabile determinismo.
Un ectomorfo puro non potrà mai ottenere i risultati di potenza di un mesomorfo, il quale a sua volta dovrà impiegare il doppio dello sforzo per ottenere quella definizione che all’ectomorfo riuscirebbe molto più agevole.

 

Come questo, altre decine di esempi nei più svariati campi della fisiologia, sembravano sottolineare l’importanza della genetica. In altri termini, fino ad un decennio fa, i viventi sembravano indissolubilmente collegati alla loro genetica per quanto riguardava ogni aspetto del loro ciclo vitale: longevità, incidenza di patologie degenerative, potenzialità prestative e agonistiche e finanche potenzialità psicoattitudinali. Era l’era della genetica.
Questo quadro d’insieme è stato messo in discussione da uno degli animali più comuni, umili e al tempo stesso meno conosciuti: l’ape domestica.
Per decenni ci era chiesto come potesse avvenire quella straordinaria metamorfosi che, a partire da un uovo fecondato prodotto da una regina, un uovo identico alle migliaia di uova prodotte ogni anno dalla regina della colonia che davano origine a schiere di operaie, si producesse una regina anziché un’altra operaia. 

 

La differenza tra regina e operaia è enorme.
La regina è grossa il doppio delle operaie, è fertile a differenza delle operaie che sono tutte sterili, e vive da quattro a cinque anni, contro le quattro settimane di una operaia.
Tutte le operaie sono sorelle tra loro e figlie dell’unica regina della colonia e dell’unico maschio con cui essa si è accoppiata una volta sola. Ogni tanto, però, in tarda primavera, le operaie decidono di far
schiudere nuove regine: scelgono alcune uova e le sottraggono al destino che avrebbero avuto sviluppandosi come operaie, nutrendo le larve che ne nascono con pappa reale, anziché con il miele.

 

Le larve, nutrite con pappa reale, si trasformano in regine, pur condividendo lo stesso identico patrimonio genetico di tutte le altre api della colonia. Una enorme differenza fenotipica e fisiologica, innescata unicamente dalle condizioni di allevamento. Era nata l’epigenetica.Studiando questi insetti e una moltitudine di altri organismi, si scoprì che esistevano diversi meccanismi non genetici che garantiscono agli animali e alle piante una notevole plasticità alle condizioni ambientali, attraverso meccanismi di “silenziamento” o ”espressione” di tratti di DNA.
Plasticità non dovuta alla genetica, dunque: attraverso la quale organismi con lo stesso DNA possono rispondere in modo completamente diverso a condizioni ambientali diverse.

 

Così come il fenotipo, anche i meccanismi di invecchiamento cellulare sono modulati da appositi enzimi, le ormai famose telomerasi, che possono contrastare i fenomeni di invecchiamento cellulare determinati dall’accorciamento delle estremità dei cromosomi, riparando e allungando le estremità stesse. L’epigenetica, come potete immaginare,
sta attraendo l’attenzione dell’intera comunità scientifica, come novelli alchimisti attratti da questa nuova Pietra Filosofale. Ma torniamo ai nostri gemelli spaziali: Scott Kelly e Mark Kelly, entrambi gemelli monozigoti, entrambi identici geneticamente, entrambi astronauti, vennero arruolati dalla NASA per un esperimento mai tentato prima:

 

Scott venne mandato in orbita per quasi un anno (340 giorni), mentre Mark rimase a terra, sottoposto allo stesso protocollo sperimentale del fratello, per lo stesso periodo di tempo.
Il protocollo sperimentale è stato imponente: ad entrambi i gemelli sono stati prelevati ad intervalli regolari, per tutti i 340 giorni,

 

• campioni di saliva per l’analisi enzimatica,

 

• campioni di cellule epiteliali della bocca per le analisi genetiche,

 

• campioni di feci per lo studio dei cambiamenti del microbiota intestinale e dei fattori infiammatori,

 

• urine, per la titolazione e il dosaggio del metabolismo del calcio,

 

• campioni di sangue per lo studio dei fattori infiammatori, conta dei leucociti e profilo ormonale e infine

 

• pressione sanguigna per lo studio delle alterazioni della pressione in assenza di gravità.

 

Le condizioni ambientali nelle quali Scott è vissuto per quasi un anno, sono generalmente note al pubblico: permanenza in un ambiente privo di gravità, alterazione dei normali ritmi circadiani, parzialmente compensata da un controllo artificiale del ciclo giorno/notte attraverso la somministrazione di appositi programmi luce/buio, impossibilità di esporsi alla luce solare non schermata opportunamente e infine, spazi abitativi mediamente ristretti e conseguente necessità di svolgere regolare attività fisica attraverso macchine, per combattere i fenomeni di demineralizzazione ossea, purtroppo ben noti negli astronauti.

 

I risultati, come accennavo prima, sono sorprendenti: lo studio dei telomeri di Scott e di Mark, e la valutazione dell’attività dell’enzima telomerasi nei due soggetti ha mostrato che i telomeri di Scott, al termine del periodo passato nello spazio sono risultati più lunghi di quelli di Mark e che in generale la telomerasi è rimasta più attiva in Scott per tutto il periodo trascorso in orbita. Tale differenza tra i due si è attenuata sensibilmente dopo il ritorno di Scott sulla Terra, fino ad annullarsi qualche mese dopo il ritorno.

 

 

I livelli ormonali dell’ormone IGF-1 (Insulin-Like Growth Factor), o somatomedina, un ormone dalle proprietà anaboliche prodotto dal fegato sotto lo stimolo dell’ormone della crescita o GH, che presenta livelli elevati durante la pubertà e diminuisce con la vecchiaia, sono aumentati sensibilmente in Scott, ma non in Mark, e ciò si ritiene sia avvenuto in risposta all’intenso allenamento prevalentemente anaerobico cui tutto l’equipaggio era costretto per contrastare la demineralizzazione ossea e la perdita di massa muscolare.
Anche il microbiota intestinale dei due gemelli ha subito modificazioni e ciò è stato messo in relazione con lo stato infiammatorio dei due soggetti, più alto in Scott nel primo periodo di permanenza nello spazio, si ritiene come effetto di adattamento al nuovo contesto ambientale.

 

Ancora più sorprendente, la comparazione tra i livelli e le tipologie di RNA espressi dai due soggetti, ha evidenziato che, a fronte di un profilo genomico identico, i due gemelli hanno espresso RNA significativamente diversi ad ogni campionamento effettuato, evidenziando differenze al momento ancora largamente sconosciute, ma fondamentali
nelle attività di sintesi proteica, al punto da far parlare i ricercatori del progetto Astronaut Twins Study di “space genes” ovvero di geni per lo spazio, una definizione probabilmente ad effetto, che descrive però meccanismi epigenetici in corso, con una serie di modificazioni delle attività di trascrizione e sintesi proteica, che getteranno nuova luce su questo settore ancora in gran parte inesplorato.

 

Per concludere, abbiamo visto come lo studio di due organismi praticamente identici, con lo stesso corredo genetico, esposti a condizioni radicalmente diverse tra loro, abbia evidenziato una serie di risposte fisiologiche e ormonali che, se protratte nel tempo, avrebbero indubbiamente potuto mutare la speranza di vita e le dinamiche di invecchiamento
di entrambi.
Questo affascinante esperimento non solo sarà fondamentale per preparare le ormai prossime missioni di lunga durata nello spazio e impostare i protocolli gestionali per gli equipaggi delle prime missioni di colonizzazione su Marte (al momento in fase progettuale), ma getta luce anche sul nostro settore, quello collegato al rapporto tra stimoli ambientali, fitness e invecchiamento, confermandoci che non tutto è scritto nei geni, ma molto dipende dalle condizioni a cui li esponiamo durante la nostra vita.

 

Torneremo su questo esperimento durante la Convention.

 

 

 

 

 

di Simone Masin – M. Sc, PhD, M.ES Università Bicocca di Milano

 

 

 

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