Secondo uno studio condotto dal Weil Cornell Medical College a New York e pubblicato su Diabetes Care, nelle persone in sovrappeso con diabete di tipo II mangiare verdure e proteine prima dei carboidrati abbassa la glicemia dopo il pranzo.
Prevenire i picchi iperglicemici nelle persone diabetiche è importante per cercare di prevenire le alterazioni, specie a livello dei vasi arteriosi, che possono poi portare ad esempio a malattie ischemiche e cardiache. Ma questo tipo di indirizzo è importante anche negli atleti: mantenere stabili i livelli di glicemia aiuta a prevenire cambiamenti indesiderati nei livelli di energia e riduce l’accumulo di grasso.

 

Gli autori confermano che quindi un modo semplice per prevenire l’iperglicemia post prandiale è iniziare il pasto assumendo proteine, oltre che vegetali: questo avvierà inoltre i processi metabolici che favoriscono la sintesi delle proteine nei muscoli, oltre che a prevenire, come già detto, l’aumento rapido del glucosio nel sangue.

 


 

 

È stato pubblicato sull’American Journal of Physiology Regulatory, Integrative and Comparative Physiology un curioso studio da parte dell’Università della California sull’utilizzo del succo di barbabietola: secondo i ricercatori la sua assunzione migliora la capacità di endurance, favorisce il rilascio di ossigeno e riduce il lavoro a carico del cuore durante l’esercizio.
A diversi gruppi di giovani uomini in età universitaria è stato fatto bere per 15 giorni succo di barbabietola. Il risultato è stato il raddoppio del monossido di azoto (NO), che è un agente chimico fondamentale per controllare il flusso sanguigno, avendo questa molecola capacità vasodilatatrice.

 

Inoltre il succo di barbabietola ha ridotto di qualche punto la pressione sistolica e diastolica, la pressione arteriosa media e le resistenze periferiche totali a riposo e durante l’esercizio, oltre ad abbassare lo sforzo a carico del cuore, misurato con la frequenza cardiaca, durante l’esercizio fisico sia moderato che intenso.
I ricercatori, che erano partiti da una ricerca che aveva rilevato che assumere succo di barbabietola aumentava la prestazione durante l’attività di kayak e di ciclismo, hanno concluso che questo succo merita studi approfonditi perché sembra essere un integratore importante per migliorare la salute cardiovascolare e la capacità di resistenza alla fatica.

 


 

 

L’IGF-1 è un fattore di crescita muscolare e funziona in parte contrastando l’effetto della miostatina, un agente chimico che limita la sintesi delle proteine nel muscolo. Un raffi nato lavoro condotto dalla Harvard University e pubblicato su Biochemical and Biophysical Research Communication ha seguito l’iter metabolico dell’IGF-1. Il nostro corpo ha un sistema di regolazione efficace che assicura che la massa muscolare possa crescere in risposta all’esercizio fisico e ad una corretta alimentazione, ma non in maniera eccessiva: c’è infatti un limite massimo all’ipertrofia muscolare a causa del bilanciamento tra IGF-1 e miostatina. Questo fa capire come una certa categoria di bodybuilder arriva a composizioni corporee esagerate forzando farmacologicamente questa fisiologica omeostasi.

 

Continuando nel processo della crescita muscolare, si richiede la stimolazione di vari processi metabolici che attivano la sintesi delle proteine (ad esempio, la mTOR – mammalian target of rapamycin) sfruttando l’esercizio fisico, l’alimentazione e inibendo la miostatina che appunto limita la crescita. Perchè questo limite? Perché l’ipertrofia muscolare è biologicamente dispendiosa per il nostro corpo. Infatti quando si smette di allenarsi e assumere una alimentazione specifica, l’ipertrofia muscolare recede in maniera a volte molto veloce.

 

Non solo, i ricercatori hanno ancora una volta rilevato come i limiti massimi di crescita muscolare sono determinanti da caratteristiche genetiche, dalla disponibilità fisiologica specifica per ogni individuo di ormoni anabolici, dalla fonte alimentare di proteine e nutrienti e dal contrasto della miostatina da parte dell’IGF-1 che viene stimolato specie dagli esercizi contro resistenza. Dal punto di vista scientifico questo articolo risulta essere estremamente interessante, anche se molte notizie erano già conosciute, ma maggiormente indicativo è l’indirizzo “etico” che esso suggerisce in tutti coloro che svolgono un’attività fi sica per aumentare le masse muscolare.

 


 

La cervicalgia costituisce un notevole problema sanitario che offre un numero esiguo di opzioni terapeutiche basate sulle evidenze. Emerge con sempre maggiore evidenza l’efficacia dello yoga nella riduzione dei disturbi muscolo-scheletrici. I ricercatori dell’università di Duisburg, Germania, coordinati da Cramer H hanno pubblicato sul Clinical Journal of Pain uno studio con lo scopo di valutare gli effetti dello yoga lyengar rispetto a quelli degli esercizi sulla cervicalgia cronica non specifica.

 

I pazienti sono stati randomizzati al gruppo yoga o al gruppo esercizi. Il gruppo yoga ha seguito un corso di yoga della durata di 9 settimane mentre il gruppo esercizi ha ricevuto un manuale di autocura sugli esercizi da eseguire a casa per la riduzione della cervicalgia. La misura di outcome primario era l’attuale intensità del dolore al collo (scala analogica visiva di 100 mm).

 

Le misure di outcome secondarie includevano disabilità funzionale (Neck Disability Index), dolore con il movimento (scala analogica visiva), qualità della vita connessa alla salute (questionario SF-36), ampiezza di movimento cervicale, acuità propriocettiva e soglia del dolore alla pressione. Lo yoga ha permesso di ridurre l’intensità della cervicalgia e della disabilità e ha migliorato la qualità della vita connessa alla salute. Lo yoga sembra influenzare lo stato funzionale dei muscoli del collo. [Cramer H e coll. Randomized-controlled trial comparing yoga and home-based exercise for chronic neck pain. Clin J Pain. 2013 Mar;29(3):216-23.]

 


 

Obiettivo dello studio era quello di stabilire se la presenza e il grado di osteoartrite (OA) grave delle faccette articolari lombari si associno a mal di schiena nei pazienti in età avanzata, considerando la riduzione dell’altezza dei dischi e altre covarianti. Il lavoro di Suri P e coll. dell’Università di Seattle, USA, pubblicato su Osteoarthritis Cartilage, ha preso in esame 252 soggetti in età avanzata della coorte Framingham Offspring (età media 67 anni).

 

I partecipanti sono stati sottoposti a valutazione dell’OA delle faccette articolari lombari mediante tomografi a computerizzata standard (CT) e a valutazione della riduzione dell’altezza dei dischi a livello degli interspazi L2-S1 mediante scale semi-quantitative di quattro gradi. Un’OA grave delle faccette articolari è stata definita in base alla presenza e/o al grado di riduzione dello spazio articolare, osteofitosi, ipertrofia del processo articolare, erosioni articolari, cisti subcondrali e fenomeno dello spazio vuoto intrarticolare.

Una grave riduzione dell’altezza dei dischi è stata definita in base alla presenza di una marcata riduzione dell’altezza e dei piatti vertebrali quasi a contatto. Il mal di schiena è stato definito come dolore autoriferito dal paziente e presente quasi tutti i giorni o tutti i giorni negli ultimi 12 mesi.

 

Sono stati applicati indici statistici per valutare l’associazione tra OA grave delle faccette articolari e mal di schiena, tenendo presente variabili accessorie quali la riduzione dell’altezza dei dischi, caratteristiche socio-demografiche e fattori antropometrici e connessi alla salute.

 

Le conclusioni confermano che nei soggetti in età avanzata basati sulla popolazione, la presenza e il grado di osteoartrosi grave delle faccette articolari si associano a mal di schiena, indipendentemente dalle caratteristiche socio-demografiche, dai fattori connessi alla salute e dalla riduzione dell’altezza dei dischi.
[Suri P e coll. Presence and extent of severe facet joint osteoarthritis are associated with back pain in older adults. Osteoarthritis Cartilage. 2013 Sep;21(9):1199-206.]

 


 

 

L’utilizzo delle scarpe “a dondolo” ha avuto un certo successo e le stesse sono consigliate per prevenire o curare la lombalgia. E’ stato pubblicato da MacRae CS sulla rivista Spine uno studio clinico randomizzato con esaminatore in cieco. Con l’obiettivo di mettere a confronto l’efficacia delle scarpe con suola a dondolo con l’efficacia delle scarpe con suola tradizionale in pazienti con lombalgia. I due gruppi sono stati seguiti per 12 mesi e l’outcome primario è stato misurato mediante il questionario Roland Morris Disability Questionnaire (RMDQ).

 

Le conclusioni portano con certezza che le scarpe con suola a dondolo non sono più efficaci di quelle con suola piatta nel migliorare la disabilità e gli outcome relativi al dolore dei pazienti con lombalgia. Le suole piatte sono più efficaci nel caso di lombalgia aggravata dalla posizione eretta o dalla camminata.
[MacRae CS e coll. Effectiveness of rocker sole shoes in the management of chronic low back pain: a randomized clinical trial. Spine. 2013 Oct 15;38(22):1905-12.]

 


 

L’esercizio fisico migliora la qualità della vita nei soggetti con diabete di tipo II. Numerosi studi svolti in soggetti sani o con altre malattie hanno rilevato miglioramenti significativi nella qualità della vita dopo esercizio fisico. Con qualità della vita si intende in genere l’aspetto fisico, emotivo e sociale del benessere, la funzionalità fisica, eventuali limitazioni di ruolo attribuibili a problemi fisici o emotivi, la presenza di dolore fisico e il livello di energia personale. Uno studio dell’Università della Louisiana, pubblicato su Diabetes Care, conferma i dati prima espressi, fornendo prove convincenti degli effetti benefici dell’esercizio fisico sulla qualità della vita anche negli adulti diabetici, afflitti da una qualità della vita inferiore rispetto ai non diabetici.

 

Tutto ciò deriverebbe dal fatto che l’esercizio fisico migliora la glicemia, tende a normalizzare l’emoglobina glicata ed è strettamente legato ad un training fisico che vede la presenza di esercizi di tipo aerobico e per la forza. Nello studio pubblicato i risultati hanno confermato che nei diabetici che si erano sottoposti ad un trial di 9 mesi gli indici di qualità della vita erano nettamente migliorati rispetto al gruppo di controllo, indipendentemente anche dalle modalità del tipo di esercizio, anche se è parso emergere una migliore risposta dall’unione di attività aerobica ed anaerobica.

 


Le persone in generale preferiscono dare la colpa per l’eccesso di tessuto adiposo e per le scarse capacità atletiche ai propri geni, quasi che ci fosse un imprinting non modificabile. Un articolo di ricercatori finlandesi, pubblicato su Twin Research and Human Genetics, conferma che non è sbagliato dire che i geni influenzano la salute fisica, la capacità aerobica, la composizione corporea, la regolazione della temperatura e la salute cardiovascolare.
Ma in tutti i casi lo stile e le abitudini di vita incidono non poco sulla qualità biologica delle persone: anche coloro che hanno geni meno “sportivi” possono raggiungere una condizione di salute migliore con l’attività fisica.

 

Lo studio, condotto su gemelli in attività e sedentari, omozigoti o eterozigoti, ha confermato che l’attività fisica supera la genetica. I gemelli attivi hanno mostrato livelli minori di grasso addominale, un sistema cardiovascolare più robusto e ossa più forti. Tutto ciò avveniva nella comparazione intra-gemellare ovviamente; infatti gemelli omozigoti con stili di vita simili mostravano livelli quasi identici di composizione corporea e di capacità sportiva.

 

Ancora una volta viene dimostrato come i fattori esterni incidono in maniera significativa sulle linee genetiche, confortando quindi numerosi studi di settore che avevano già individuato questo tipo di problematica.

 


Stare al freddo, anche se moderato: parrebbe questo un modo sano per perdere peso, secondo uno studio olandese pubblicato sula rivista Trends in Endocrinology and Metabolism.
I ricercatori convengono che l’obesità è la conseguenza di un saldo energetico positivo che deve essere combattuta da un minor apporto calorico, da un aumento dell’attività fisica ed anche con terapie farmacologiche.

 

Tuttavia mantenere il peso perso è difficile e anche l’uso a lungo termine di farmaci è fonte di possibili effetti collaterali anche gravi. Queste limitazioni indicano che, date le attuali conoscenze, servono nuove idee per combattere i chili di troppo. Dato che la maggior parte delle persone vive gran parte del tempo in ambienti a temperatura controllata, i ricercatori olandesi hanno verificato se l’esposizione regolare al freddo moderato può essere una strategia sana e sostenibile per aumentare il dispendio energetico. I primi dati raccolti sembrano dimostrare che una breve ma ripetuta esposizione al freddo moderato brucia calorie, anche se gli effetti a lungo termine restano da stabilire.

 

In un gruppo di soggetti che per 6 settimane ha passato due ore al giorno a 17°C si è osservata una riduzione del grasso corporeo. Inoltre, dopo sei ore al giorno al freddo per 10 giorni aumenta la quota di grasso bruno e si rabbrividisce meno stando a 15°. Non solo, ma aumenta anche la produzione di calore interno che può arrivare fi no al 30% del bilancio energetico globale. Lo studio, che appare abbastanza curioso e che necessita ovviamente di ulteriori conferme, rivaluta la funzione della quota di grasso bruno di ognuno di noi, che favorevolmente è volta al controllo energetico e quindi del peso corporeo.

 


 

 

Come ben si sa, in questo periodo vi è un’accesa disputa sul fatto dell’utilità dell’integrazione con vitamina D e calcio nella dieta per combattere l’osteoporosi.
Sono usciti lavori che addirittura sconsigliano l’utilizzo di queste due sostanze e altri che demonizzano il latte e i latticini.

 

Secondo l’ultima revisione della Cochrane Library, istituto molto importante e serio che revisiona la letteratura internazionale e su cui non c’è da dubitare, si afferma che negli ultrasessantacinquenni l’aggiunta giornaliera di calcio e vitamina D, ma non quest’ultima da sola, offre protezione contro il rischio di fratture.

 

Il colecalciferolo (Vit D3) ha dimostrato un ruolo essenziale nel mantenere la salute delle ossa, ma con l’avanzare dell’età le persone assimilano meno vitamina D da fonti naturali, come la luce del sole o pesce e latte, rendendo quindi necessaria una supplementazione. I revisori della Cochrane Library hanno valutato 53 studi specifici e sono giunti alla conclusione che la vitamina D da sola nelle dosi e formulazioni testate verosimilmente non riduce il rischio di fratture dell’anca negli anziani, mentre i risultati degli studi precedenti avevano dimostrato che la vitamina D associata al calcio dimostrava un effetto protettivo sul rischio di fratture. Le statistiche dicono infatti che per ogni mille anziani a basso rischio, che vivono in comunità, assumendo calcio e vitamina D si verifica una frattura in meno all’anno.

 

Che salgono a 9 in meno tra i residenti in ambienti ad alto rischio, come case di cura e ospedali.
Naturalmente vanno valutati i dosaggi e gli eventuali effetti collaterali, specie nelle persone portatrici di calcolosi renale o alterazioni del ritmo cardiaco. Il tutto quindi va valutato di caso in caso, ma l’effetto benefico dell’associazione vitamina D e calcio viene riconfermata.

 


 

Sulla prestigiosa rivista JAMA è stato pubblicato uno studio da parte dell’Università del Maryland secondo cui l’incremento dell’attività fisica nelle donne con diabete mellito gestazionale (Gdm) riduce il rischio di progressione della malattia verso il diabete mellito di tipo 2. Il Gdm è una complicanza non comune della gravidanza e viene definito come intolleranza al glucosio, che nella maggioranza dei casi scompare al termine della gravidanza stessa.

 

Negli Stati Uniti circa un terzo delle donne con diabete di tipo 2 hanno una storia di Gdm e verosimilmente, se a quel tempo si fosse provveduto con opportuni interventi, forse non ci sarebbe stata l’evoluzione verso il diabete stabile. Gli autori dello studio hanno esaminato il ruolo dell’attività fisica in gravidanza in confronto ad attività sedentarie nella eventuale progressione da Gdm a diabete di tipo 2. I dati ottenuti sembrano dimostrare che ogni incremento di circa 100 minuti settimanali di una attività fisica moderata o di 50 minuti di esercizio vigoroso porta ad una riduzione del 9% del rischio di diabete di tipo 2.

 

E nelle donne che hanno aumentato i loro livelli complessivi di attività fisica, secondo le raccomandazioni delle linee guida nazionali, cioè 150 minuti a settimana di attività fisica di intensità moderata o 75 minuti di attività vigorosa, il rischio di sviluppare la patologia è calato del 47%. Il messaggio quindi è chiaro: di fronte ad un diabete gestazionale è importante che oltre all’alimentazione e al controllo del peso ci sia un sostanzioso incremento dell’attività fisica.

 


 

 

La pubblicità televisiva americana spinge i supplementi di testosterone per gli uomini di mezza età o più anziani con “testosterone basso”.
Un basso livello di testosterone negli uomini in età avanzata è legato a morte prematura, malattie cardiache, disfunzione erettile, depressione, sarcopenia, riduzione della massa ossea, minor energia.

Ciò ha innescato negli USA una valanga di prescrizioni di testosterone che ha dato un gettito di 2.8 miliardi di dollari nel 2016, con una proiezione di 3.8 miliardi di dollari per il 2018.

 

Un editoriale di David Handelsman del ANZAC Research Institute della University of Sydney, Australia, pubblicato su JAMA ha argomentato che i medici dovrebbero ricercare la causa della scarsità di testosterone negli anziani, piuttosto che cercare di aumentarne la concentrazione nel sangue. I sintomi legati ai bassi livelli di testosterone possono migliorare con l’esercizio, con la perdita di peso, migliorando la dieta, riducendo lo stress e dormendo di più.
[Handelsman DJ. Testosterone and Male Aging: Faltering Hope for Rejuvenation. JAMA. 2017 Feb 21;317(7):699-701.]

 

 

 

a cura del Comitato Scientifico ISSA Europe 

 

 

 

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