L’invecchiamento è un fenomeno che è definito nel Dizionario Salute sul web come “processo biologico che interessa cellule, tessuti e organi di un individuo, oltre a facoltà cognitive e psichiche. Si manifesta con modificazioni degenerative a carico del sistema centrale, del sistema circolatorio e dell’apparato respiratorio.
A livello cognitivo l’invecchiamento determina uno scadimento delle capacità percettivo-cognitive. Anche la sfera emotiva si modifica con scarsa capacità di adattamento a nuovi contesti”.
Il processo di invecchiamento, però, come molti altri fenomeni biologici, è analizzabile a diverse scale di organizzazione, e i fenomeni degenerativi che si osservano a scala sistemica o tissutale, con lo scadimento delle prestazioni di interi sistemi o apparati, o di singoli organi come cuore, polmoni o cervello, devono avere la loro origine ad una scala più piccola: se un organo o un tessuto invecchia o degenera, significa che qualcosa sta succedendo alle popolazioni cellulari che lo costituiscono. Già, ma cosa?
A livello intuitivo, le cellule sembrano immortali: fatte salve le popolazioni cellulari che non sono in grado di riprodursi in maniera autonoma, come gli eritrociti e le piastrine del sangue, che vengono continuamente rimpiazzate da nuove cellule generate dagli organi emopoietici, e le cellule nervose, che invece cessano di riprodursi con il termine dell’età evolutiva nei ragazzi, il resto delle cellule continua a riprodursi attraverso la mitosi, al punto che è “filosoficamente” difficile dire quando finisca la vita di una cellula di un organismo pluricellulare, cosi come di un qualsiasi batterio o organismo unicellulare.
Una cellula nasce dalla scissione binaria di una cellula madre, per poi dividersi a sua volta in due cellule figlie: possiamo forse dire che “muore”?
Perde la sua individualità, d’accordo, non esiste più come singolo individuo cellulare, per dividersi in due nuovi individui-figli, ma, fatti salvi eventi di mortalità accidentale, sembrerebbe immortale. E noi, fatti da miliardi di cellule, con esse.
Purtroppo, se questo sembra vero per alcuni organismi unicellulari, batteri e protozoi, non lo è per noi, esseri pluricellulari.
La prima crepa in questo ragionamento venne portata dal professor Leonard Hayflick nel lontano 1961. Partendo da una coltura cellulare di cellule embrionali umane, Hayflick provò a testare la loro capacità di dividersi all’infinito: una coltura batterica che parta da una o poche cellule fondatrici, finché vengano loro forniti nutrienti e un ambiente adeguato continua a riprodursi, in assenza di predatori o parassiti come virus o altre cellule la coltura può continuare a prosperare.
Con grande sorpresa di Hayflick, le cellule umane invece smettevano di replicarsi regolarmente dopo 50-60 cicli cellulari, per poi invecchiare e morire. La scoperta sembrava applicarsi, oltre che alle cellule umane, anche a tutte le cellule di animali pluricellulari che fossero state studiate in coltura, al punto che venne coniata la definizione di Soglia di Hayflick: certo, le cellule di un criceto o di un topolino vivevano molto meno di quelle di un uomo, ma il motivo era solo che svolgevano i loro cicli mitotici più rapidamente.
Il segreto della morte era nascosto dentro la Soglia di Hayflick, ma servì un altro mezzo secolo per scoprirlo: le prime evidenze che il segreto dell’immortalità fosse nascosto nei cromosomi giunsero proprio dalle cellule tumorali.
Per un macabro e ironico gioco del destino, si scoprì che le uniche cellule che erano in grado di riprodursi in modo indefinito, superando senza ostacoli la Soglia di Hayflick, erano proprio le cellule tumorali provenienti dalle biopsie e coltivate in laboratorio: se ben nutrite e tenute pulite, le popolazioni di cellule neoplastiche, o quantomeno molte di esse, erano immortali: quello che le distingueva dalle cellule sane era la lunghezza dei loro cromosomi. Le cellule immortali sembravano avere cromosomi significativamente più lunghi di cellule molto più “giovani” di loro, come se in qualche modo riuscissero a riparare i loro cromosomi ad ogni divisione: ed era proprio così.
Quando si cominciò a sequenziare il DNA e a studiare la corrispondenza di codice tra le sequenze delle basi che lo componevano e gli amminoacidi, per le quali esse codificavano si scoprì che sorprendentemente, il DNA era pieno zeppo di “sequenze non codificanti”, alle quali cioè non corrispondevano amminoacidi: per fare un esempio semplice, se immaginiamo che il DNA sia un libro di cucina al cui interno sono contenute le istruzioni per l’assemblaggio di un gran numero di piatti (le proteine di cui ogni organismo è costituito), le sequenze non codificanti corrispondono alle…pagine bianche!
E a cosa servono le pagine bianche in un libro di ricette? Beh, per esempio a separare la sezione dei dolci al cucchiaio da quella dei biscotti. O il capitolo dei dolci da quello degli arrosti: a ben pensarci, le pagine bianche sono davvero essenziali per evitare disastri, sia culinari che…biologici!
Allo stesso modo, le sequenze non codificanti del DNA servono a tenere separate aree che codificano per proteine diverse, ma non solo: permettono anche importanti funzioni di plasticità immunologica, e, nel caso delle estremità dei cromosomi, purtroppo, funzionano anche da orologio biologico.
Le estremità dei cromosomi, chiamate telomeri, servono come sito di inizio per il processo di duplicazione genetica: ad ogni divisione cellulare, quando è necessario che da un filamento di DNA se ne costruiscano due identici, la complessa macchina di duplicazione si aggancia a ciascun telomero: purtroppo ne accorcia un pezzettino ad ogni ciclo cellulare. Quando i telomeri diventano troppo corti per permettere ulteriori duplicazioni, la cellula entra in senescenza, non più in grado di riprodursi la sua vita è segnata: degenererà e morirà.
E le cellule immortali? Loro hanno la capacità di produrre un enzima, chiamato telomerasi, che è in grado di “rattoppare” le estremità dei cromosomi dopo ogni divisione cellulare: praticamente la famosa Pietra Filosofale!
Le uniche cellule sane che sono in grado di produrre l’enzima sono le cellule germinali e quelle staminali, oltre alle cellule neoplastiche, che però utilizzano questo loro “superpotere” per fini devastanti, finendo per uccidere l’organismo nel quale crescono a dismisura.
La ricerca biomedica sta lavorando sui meccanismi di shutdown della telomerasi, cioè in che modo la cellula “spenga” la catena di produzione dell’enzima, più per capire il significato evolutivo dell’invecchiamento e rallentarlo che per sintetizzare la Pietra Filosofale, però: il rischio di riattivare la telomerasi in cellule adulte e trasformarle in neoplastiche è molto concreto.
Altre ricerche si stanno invece concentrando sulla VELOCITA’ di accorciamento dei telomeri, altra grande incognita che apre strade promettenti per un invecchiamento più sano e una qualità di vita dignitosa: esistono popolazioni umane i cui telomeri sembrano usurarsi a una velocità inferiore di altre, con il risultato di una longevità maggiore in tali popolazioni.
Studi sulle scimmie e sull’uomo sembrano evidenziare una correlazione tra accorciamento dei telomeri e stress ambientale. Sempre su tale promettente ambito di ricerca si colloca uno studio comparativo effettuato dalla NASA sui due militari gemelli americani Scott e Mark Kelly, entrambi astronauti, uno dei quali trascorse quasi un anno nello spazio, sembrano mostrare che in assenza di gravità, l’accorciamento dei telomeri rallenta.
Affronteremo questo genere di ricerche nel prossimo articolo.
a cura di Simone Masin – M. Sc, PhD, M.ES Università Bicocca di Milano
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