“La scienza (intesa come ricerca scientifica), l’esperienza e le intuizioni applicative sono il ‘metodo’ vincente nell’ allenamento di alto livello.
Non basta presentarsi (a volte “trincerarsi”) con: ‘quello che faccio è basato su prove scientifiche’ oppure ‘lo dicono studi scientifici’. Perché noi allenatori stiamo in tuta sul campo e in palestra, non in biblioteca o su Pub Med.”.
Bisogna allenare basandosi sulle “EVIDENZE” certo, poi però si devono accumulare “ESPERIENZE” e si devono avere “INTUIZIONI” soprattutto per personalizzare il training sul singolo.
Da una parte gli allenatori “TRADIZIONALI” tutta esperienza diretta solitamente prudenti, quando non sospettosi, rispetto alle innovazioni.
Dall’altra gli allenatori “SCIENZIATI” tutto ricerche e teorie metodologiche, con scarsa pratica di campo. I primi adottano e applicano il modello tradizionale “trials and errors”, “prove ed errori”: in pratica sperimentano e dagli errori imparano, con notevole investimento di tempo e, talvolta, sbagliando grossolanamente (F. Impellizzeri, A. Sassi, E. Arcelli, P. Mognoni, A. La Torre et al.).
Un modello quindi soggettivo, esperienziale, non strutturato e di parte (Rushall, 2002), in auge da generazioni, ancora in molti sport la fa da padrone (ad esempio nelle arti marziali, per esperienza diretta).
Nell’ultimo ventennio, proposto ed applicato dagli allenatori più “moderni”, si è sempre più diffuso il modello EBC: Coaching Evidence-Based (derivato dal più noto EBM: Evidence-Based Medicine). Interessante richiamare sinteticamente il significato di EBM: “introdotta inizialmente per porre enfasi nei processi decisionali passando dall’intuizione, dall’esperienza clinica non sistematica, dalla fisiopatologia razionale alla ricerca scientifica clinicamente rilevante” (Guyatt et al. 1992).
Quindi decisioni applicate non solo su dati provenienti dalla ricerca scientifica ma anche per competenze cliniche ed esperienze, su valutazioni e su preferenze dei pazienti (Sackett, 1996).
Per noi sarebbero clienti (PT) o atleti (Coach). Per estensione il modello EBC (Coaching Evidence-Based) risulterebbe obiettivo, strutturato e, teoricamente, molto efficace.
In definitiva, oltre i dati scientifici, l’esperienza dell’allenatore e le prospettive dell’atleta divengono determinanti per il successo del processo di allenamento.
Quindi sarebbe opportuno per l’allenatore parlare in ultima analisi di EBP: Pratica Evidence-Based.
I “vecchi” trainer hanno tante intuizioni ed esperienza da vendere, ma danno poco peso alle “prove scientifiche” soprattutto se in contrasto con il loro sedimentato “modus operandi”: non dovrebbero ignorare la scienza e dovrebbero fare uno sforzo a ritroso (o uno scatto in avanti, dipende dal punto di osservazione…) perché la ricerca scientifica è di sicuro il miglior “mezzo” per far scaturire nuove intuizioni ed esperienze sul campo, producendo così risultati coerenti e riproducibili sugli atleti (con risparmio di tempo e limitazione degli errori/ danni). Una visione “binaria” e “dogmatica” anche se su base scientifica alimenta però la sfiducia per quanto riguarda l’applicabilità sul campo da parte dà vecchi coach (oggi questo è particolarmente evidente nel campo della nutrizione per il miglioramento della performance).
Nulla o quasi nel nostro campo è “buono o cattivo”, “bianco o nero”: le sfumature esistono e si incontrano continuamente, tante quante le variabili in gioco nell’arte di allenare traducendo sul campo le nozioni scientifiche apprese. Se poi, oltre i limiti statistici, la specificità della popolazione, le errate interpretazioni, i meccanismi casuali-lineari, le semplificazioni di ricerca, entrano in campo i vari pregiudizi personali e preferenziali (Confirmation Bias) le sfumature aumentano e le condizioni “binarie” (o così o così, o bianco o nero) divengono improponibili nel coaching, in particolar modo in quello di alto livello.
Lo sport “top level” riguarda l’1% dell’ 1% della popolazione: difficile sviluppare e riproporre buone “EVIDENZE” sul campo con un campione statistico così piccolo.
Ma mettersi in gioco a mente aperta è faticoso: per questo le “convinzioni personali” dei vari coach imperano, nei secoli dei secoli…
La SCIENZA deve aiutare a informare il processo decisionale, non lo deve “dettare” o “imporre” pedissequamente: “basato su prove scientifiche” è una pessima frase per concludere un articolo sull’allenamento.
Il vero allenamento è quello quotidiano in pista o in palestra, che costa fatica e versa sudore, doping-esente.
Ad esempio esistono oggi valide strumentazioni per la stima sul campo di variabili fisiologiche o di composizione corporea, molto utili nella programmazione/periodizzazione del training e per il controllo dei risultati in itinere, ma le stesse “macchine” non possono “stampare” allenamenti e alimentazioni standardizzate per tutti i soggetti. Proporre interventi “a prescindere” senza l’intervento “umano” del coach non ha senso.
E’ il trainer che deve contestualizzare, intuire e variare le applicazioni secondo le sue competenze, capacità ed esperienze. Serve quindi tanta competenza e la scienza deve essere ben “filtrata”, comunicata e compresa. Soprattutto nell’era “social” dove “l’opinione di un premio Nobel espressa in un post o scritta in un blog vale come quella del guru ciarlatano di turno” (Umberto Eco).
Molti allenatori oggi sono più istruiti ma non comunicano correttamente o non possono farlo, sia tra loro sia con gli atleti, sia con il “team”.
SCIENZA e PRATICA debbono svilupparsi e crescere a braccetto, di pari passo, inizialmente anche in parallelo, per poi convergere.
Utile ricordare la definizione di “EVIDENCE” riportata nel dizionario: “l’insieme dei fatti a disposizione o le informazioni che indicano se una credenza o proposizione sia vera o valida; comprendono oltre alla ricerca scientifica, l’esperienza personale, l’intuizione, gli aneddoti e le testimonianze” (Guyatt et al. 1992). Per noi allenatori a cosa si riferisce l’EVIDENZA SCIENTIFICA? L’Evidence-Based Coaching (EBC) “è aperto, riflessivo, un processo decisionale da parte di un trainer professionista su come gestire l’atleta, che integra le migliori evidenze scientifiche disponibili, i dati della ricerca, l’esperienza di coaching e le opinioni, preferenze e situazioni personali dell’atleta stesso, considerando anche il contesto sociale, culturale e la logistica dove viene “somministrato” il coaching”. ( Sam Leahy in Stu McMillan, tratto da A Benatti 2016). Inoltre è necessaria una corretta e completa comunicazione per una discussione costruttiva tra trainer: oggi nel web avviene esattamente il contrario, ammesso che blog, forum, post ecc. siano il riferimento da prendere.
Non possiamo “scegliere” le informazioni e i dati delle ricerche solo per rafforzare le nostre convinzioni e sensazioni: basta aprire un “social” o partecipare ad un convegno dove ormai lo “stile” comunicativo è “noi contro loro” (per esempio, restando in tema alimentare, vegani contro onnivori). Anche tra trainer professionisti non sappiamo più “ascoltare”, figuriamoci proporre o discutere, quindi tendiamo ad imporre e siamo chiusi alle sfide intese come stimolo positivo a sperimentare per raggiungere risultati migliori tramite l’allenamento.
Anche la scienza ci mette del suo per alimentare questa frenetica confusione: molte volte la ricerca scientifica, per la “fretta” di pubblicare, presenta dati che contribuiscono ad aumentare l’incertezza invece di fare chiarezza in settori già di per se complessi.
Un esempio sotto gli occhi di tutti è la scienza dell’alimentazione: praticamente ogni cibo “è tutto e il contrario di tutto”, contemporaneamente cancerogeno e protettivo, o peggio ancora passa di ricerca in ricerca dal gruppo “cancro-protettivo” a quello “potenzialmente cancerogeno”. Si scatenano vere e proprie crociate, ora con condanne ora con assoluzioni, senza senso: ci perdono l’utente finale e la sua salute (alcune ricerche dimostrano che 1 Euro investito in prevenzione significano 5 – 9 euro risparmiati in assistenza medica).
Gli scienziati, quelli veri, dovrebbero inoltre cercare di comunicare in maniera comprensibile e fruibile, non solo tra di loro, ma con gli allenatori e gli altri professionisti che ruotano intorno all’atleta, scendendo dal “piedistallo” della scienza quando serve, perché sul campo si impara sempre qualcosa se ci si confronta. Per contro certi coach “vecchia maniera” dovrebbero includere con rispetto e attenzione nel loro processo di allenamento valori aggiunti quali l’anatomia applicata e la biomeccanica (solo per citarne due) ancora troppo poco conosciute “in palestra”. I curriculum “moderni” sono farciti e incentrati su “come e dove” si è imparato qualcosa piuttosto che su “cosa” si è imparato e “che cosa” si è in grado di applicare: questo ultimo aspetto è quello che ci può rendere allenatori migliori.
Non basta “cerchiare” l’esercizio da svolgere tra un’ampia scelta di skills, bisogna sapere perché lo si fa, come si può variare secondo i casi, cosa ci si aspetta di ottenere e come si può valutare il risultato. Attenzione al “guru indipendente” fuori dal coro e al dilagare delle ricerche pubblicate: troppi studi significano anche diluizione dei dati interessanti; una maggiore quantità in tutti i campi porta ad una minore qualità! Maggiori informazioni, facilmente consultabili e senza fonti attendibili, significano anche aumento delle “cattive” informazioni quando non vere e proprie “bufale”: avere gli strumenti culturali per filtrarle non è facile.
Per essere considerata come “prova” la ricerca dovrebbe essere sempre traducibile “in pratica” (Bond e Campbell 2008).
Gli allenatori e gli scienziati devono (dovrebbero) lavorare insieme (utopia?), quantomeno comunicare correttamente con feedback continui.
Abbiamo visto come “la prova scientifica” sia solo una delle tre componenti dell’EBP (Pratica Evidence-Based): l’esperienza (competenza) e l’intuizione lo sono altrettanto e vanno rispettate come tali.
La ricerca scientifica NON può essere la validazione finale di un’idea allenante: la saggezza e l’esperienza sono necessarie per l’accettazione finale di un processo che ha portato a risultati positivi e concreti.
Allenare è un percorso a metà tra arte e conoscenza perché, come asseriva già anni or sono uno dei più grandi scienziati esistiti, “la mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono” (A. Einstein).
Se allenando vediamo che “qualcosa funziona” sfruttiamolo riservandoci di capire il perché in futuro altrimenti, la moderna ossessione della raccolta dati, il continuo monitoraggio degli stessi e la smania dell’avallo scientifico, ci allontaneranno da quello che veramente conta sul campo: vale a dire COME SI ALLENA.
Se volete veramente allenare ed imparare a farlo la scienza dovrà essere lo spunto, l’interrogativo, il dato iniziale…non la conclusione scontata.
Perché la scienza, anche quella con la S maiuscola, cerca di comprendere processi complessi riducendoli ad informazioni ed azioni essenziali e noi formuliamo conclusioni basate su questi dati semplificati (a volte semplicistici).
Poi però dobbiamo verificare sul campo a cosa portano, ricordando sempre che non basta sapere “COME FUNZIONA” ma bisogna arrivare a capire “COSA FUNZIONA”.
E non è detto sia lo stesso per tutti quelli che alleniamo. Anzi non lo sarà quasi mai, quindi imparare la “regola” a memoria non serve.
Ha poca utilità sapere COME funziona il sistema cardiorespiratorio o il sistema muscolo-scheletrico se NON SAPPIAMO COSA FARE per aumentare il massimo consumo di ossigeno o per generare ipertrofia.
Sapere COSA FARE è essenziale.
Bisogna muoversi dal laboratorio al campo con curiosità continua, intuito e competenza. L’allenatore dovrà fare domande giuste e il ricercatore dovrà dare risposte corrette: quando queste ultime ci sono già starà all’allenatore ricercarle, interpretarle ed applicarle correttamente.
L’Evidence Based Coaching (EBC) unitamente all’ EBP (Pratica Evidence- Based) sarà l’inevitabile evoluzione di quella che era la “teoria e metodologia dell’allenamento sportivo”.
A volte troppa “teoria”.
Stefano Zambelli MFS M.Sc. Direttore Tecnico ISSA Europe
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