“Il termine “tecnologia” si riferisce, stando alla definizione Treccani, a quel settore di ricerca (la ricerca tecnologica, appunto), composto da diverse discipline – matematiche, ingegneristiche, in generale di matrice scientifica – che ha come oggetto l’applicazione e l’uso degli strumenti tecnici, con lo scopo di risolvere problemi pratici, di ottimizzare delle procedure, di migliorare la presa di decisioni e la scelta di strategie finalizzate a determinati obiettivi.

 

La parola tecnologia indica quindi, in senso antropologico, “le tecniche utilizzate per produrre oggetti e migliorare le condizioni di vita dell’uomo” […].
La storia della tecnologia si intreccia con la storia dell’umanità: in particolare negli ultimi secoli il progresso tecnologico ha iniziato a correre a velocità sempre maggiori.

 

Oggi con la parola tecnologia intendiamo più in generale l’uso combinato di diverse discipline utilizzate per rendere più efficiente ed economica possibile la produzione di nuovi beni e strumenti”.
Un dato è certo: senza voler necessariamente distinguere tra una tecnologia buona e una tecnologia cattiva – che riflettono criteri di valutazione eccessivamente soggettivi – è necessario però rilevare che le innovazioni introdotte dalle nuove tecnologie tendono a provocare radicali cambiamenti nelle società, modificando tradizioni, modi di procedere e perfino la cultura di una popolazione.

 

La tecnologia entra quindi in maniera “pervasiva” nella nostra quotidianità, fornendoci nuovi strumenti di interazione con l’ambiente, che stando alla definizione dovrebbero avere lo scopo di facilitarci e di sostenere il nostro progresso.

 

La domanda da porsi è: ma è veramente sempre così?

 

Ovvero, l’accesso a livelli sempre più innovativi di tecnologia è garanzia di un miglioramento nella qualità della vita?

 

Vorrei pormi questa domanda pensando in particolare al settore del fitness e wellness, in cui sappiamo bene che le acquisizioni medico-scientifiche sul funzionamento dell’organismo costituiscono il punto di partenza nella definizione di strategie e di strumenti di allenamento sempre più performanti e in grado di concretizzare le aspettative e gli obiettivi di salute e benessere delle persone.

 

Negli ultimi anni sulla scia di questa innovazione sono sorti software gestionali, strumenti, applicazioni, che certamente hanno apportato modifiche al nostro modo di intendere e praticare l’allenamento:

 

un esempio lampante è dato dagli activity o fit-trackers, ovvero quei dispositivi, di solito concepiti come orologi e braccialetti, che fanno parte della cosiddetta wearable technology, la tecnologia da indossare, le cui ultime novità sono state presentate al Consumer Electronic Show (CES) di Las Vegas lo scorso gennaio.
Si tratta di dispositivi che monitorano e registrano l’attività fisica di una persona: distanza percorsa, consumo calorico, e in alcuni casi battito cardiaco e qualità del sonno. Per farlo utilizzano tecnologie come pedometri ,accelerometri, altimetri e in qualche caso anche il GPS e sofisticati sensori in grado di leggere la frequenza cardiaca attraverso le contrazioni dei capillari del polso.

I modelli più avanzati sono in grado di rilevare numerosi parametri fisiologici e di valutare il livello di adeguatezza di una determinata e attuale conformazione di movimento, fornendo in tempo reale eventuali indicazioni di correzione.
Alcune importanti aziende del settore hanno creato dei veri e propri “sistemi integrati” di allenamento, costituiti da macchinari specifici, da una sorta di “guida pratica” selezionata sulla tipologia di obiettivo e da un software interattivo di analisi della prestazione e intrattenimento durante l’allenamento.

 

Secondo l’American College of Sports Medicine (ACSM) gli smart tracker costituiscono il principale trend attuale del fitness mondiale.
La reazione istintiva di fronte a questi miracoli della tecnologia è indubbiamente di grande stupore, di interesse e di desiderio di acquisto, connesso al pensiero che “sarà tutto semplice, accessibile ed efficace.

 

E così sì che posso gestirmi da sola il mio piano di allenamento e valutare autonomamente i miei progressi”.

 

Nonostante questa attraente prospettiva, ho provato ad immaginare cosa avrebbe significato per me cambiare la mia modalità di training e affidare ad un tale dispositivo la gestione e la valutazione del mio andamento; nel fare questo ho anche considerato il fatto di non essere un’atleta agonista, ma di rappresentare una categoria media di sportivi, come la maggior parte di coloro che frequentano i centri fitness.

 

La prima risposta che mi sono data è che farei fatica a cominciare l’allenamento: sì, è vero, alcuni tracker particolarmente evoluti sono in grado di offrire una sorta di ‘incoraggiamento’ a raggiungere le mete prefissate e piccole icone di festeggiamento quando si raggiunge l’obiettivo; ma questo rappresenterebbe una gratificazione sufficiente a smuovermi?
In secondo luogo, cosa vorrebbe dire per me condurre un allenamento in completa solitudine?

 

Certo, la sfida con se stessi costituisce da sempre un carburante motivazionale estremamente efficace, ma è anche vero che non è così in tutti i contesti: in molte discipline (non solo sportive, ma direi della vita quotidiana), ciò che ci muove è proprio la possibilità del confronto, della competizione e, se possibile, dell’idea di vincere contro altri da noi.
La soddisfazione che deriva da un tale successo innalza notevolmente i livelli di autostima e di auto-efficacia.

 

Terzo punto: sarei certa di svolgere gli esercizi in maniera corretta, nel rispetto delle mie caratteristiche psicofisiche e senza provocare inconsapevolmente danno al mio corpo?
Questo è un argomento molto delicato, che tendiamo a sottovalutare pensando che “se non esageriamo” tutto andrà bene. In realtà quante volte capita invece di provare un dolore “sbagliato” dopo l’allenamento, che poco ha a che fare con l’intensità dell’esercizio svolto. In ultimo, argomento per me – e credo per molti come me – fondamentale: la noia.

Sicuramente alcuni tracker sono in grado di fornire una serie notevole di alternative di allenamento, ma non sono in grado di farlo tenendo in considerazione le inclinazioni e le preferenze dei singoli, questione che invece a volte rappresenta una leva motivazionale fortissima.

 

Al termine di queste riflessioni il mio entusiasmo per questi dispositivi tecnologici si è notevolmente ridotto, ma ho anche ritenuto opportuno compiere una piccola ricerca per capire se le mie conclusioni (personali e soggettive) potessero in qualche modo trovare riscontri maggiormente scientifici.
Un primo esito in questo senso viene da uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’Università di Pittsburgh, durato due anni, con lo scopo di verificare l’utilità dei dispositivi da polso per persone in sovrappeso, di età compresa tra i 18 e i 35 anni, che avevano deciso di dimagrire.
Dopo una dieta di 6 mesi, sono stati sottoposti ad un programma di attività fisica con tanto di diario scritto dei progressi da tenere con regolarità. Alla fine i partecipanti hanno fatto registrare la perdita media di 8 kg.

 

I giovani sono poi stati divisi in due gruppi: al primo sono stati assegnati fitness tracker da utilizzare per 18 mesi per la registrazione dei progressi; agli altri è stata chiesta la stessa cosa, ma caricando i dati su un sito web apposito.
Il risultato ha evidenziato che trascorso il tempo di osservazione concordato, tutte le persone hanno riacquistato parte del peso, ma gli appartenenti al primo gruppo (dotati di tracker) in media hanno acquisito 2 kg in più di quelli del primo gruppo. I ricercatori non hanno potuto con questo studio iniziale sostenere che i tracker siano dannosi o controproducenti, ma hanno fatto alcune ipotesi di potenziale impatto psicologico del loro utilizzo come unica fonte di analisi dei progressi: la più interessante dal mio punto di vista è quella che sostiene che il monitoraggio quotidiano degli obiettivi possa demoralizzare le persone che non li riescono a raggiungere, inducendole a disinvestire il proprio impegno sull’attività fisica.

 

Certamente dobbiamo tenere conto che questo studio si concentra su una entità ben circoscritta – quella del sovrappeso – e non in generale su una più ampia dimensione sportiva, ma credo che le dinamiche psicologiche di fondo siano le medesime. Ciò che mi sembra emergere è questi dispositivi possano rappresentare un valido strumento, soprattutto per atleti già “disciplinati”, ma che per la maggior parte delle persone che praticano sport non possano costituire un elemento sufficiente.

 

Perché?

 

Ritengo che la risposta stia nel termine “personalizzazione”: è l’allenamento personalizzato quello che davvero funziona, ci permette di ottenere risultati duraturi nel tempo e soprattutto ci gratifica nel profondo. Questo è possibile unicamente in un contesto condiviso, direi “sociale”, che si esplica nella relazione con figure professionali competenti, come quella del Personal Trainer.

 

 

In che modo questa presenza può rappresentare una differenza?

 

Sostanzialmente nel fatto che questo tipo di relazione garantisce un’attenzione esclusiva alle persone, necessaria alla costruzione partecipata di un percorso di allenamento efficace.
Nella definizione di questo programma, il Personal Trainer mette la sua competenza a servizio della storia della persona, dei suoi specifici obiettivi e bisogni, in modo da creare un equilibrio armonico fra le diverse attività per sostenere il funzionamento dell’organismo nella sua totalità. Non sono però solo le competenze tecniche il cuore di questo intervento, quanto piuttosto  una presenza che dà motivazione, che diverte, che dà fiducia accrescendo l’autostima, che trasmette conoscenza e che facilita un processo di condivisione, diventando un concreto e significativo punto di riferimento positivo per la vita delle persone.

 

Abbiamo già ricordato più volte quanto la forza dell’esperienza che il professionista è in grado di generare nel proprio cliente sia la determinante per garantire la stabilità della relazione professionale nel tempo: questo tipo di esperienza è ciò che permette alle persone di arricchirsi vicendevolmente soprattutto a livello umano e di sperimentare quindi un profondo benessere.
La tecnologia genera indubbiamente un vantaggio, mantenendo intatta la sua funzione principale di strumento di innovazione e progresso, ma questo vantaggio rimane circoscritto se non ha la possibilità di rientrare in un contesto più ampio, complesso e ricco, come quello dell’interazione umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alice Curzi Psicologa clinica e del lavoro

 

 

 

 

 

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