“Una breve ricerca attraverso il più popolare motore di ricerca, svolta pochi giorni fa, mi ha ispirato questo nuovo articolo : provate anche voi a digitare “Intolleranza” come parola-chiave di ricerca su Google.”
Ebbene, nel decennio dei conflitti religiosi, dell’ascesa di imperi del terrore e delle nuove guerre sante tra nazioni, Google vi restituirà tra le prime quattro voci, le più popolari e più cercate, collegate alla parola “intolleranza”, le seguenti: intolleranza lattosio, intolleranza glutine, intolleranza glutine sintomi, intolleranza alimentare. Chiaramente, la pancia gonfia occupa una posizione prioritaria tra le nostre afflizioni quotidiane.
Trovo il tutto piuttosto singolare e, da qui, è sorta la domanda che ha condotto a questo articolo: come mai le intolleranze alimentari, e in particolar modo l’intolleranza al lattosio e al glutine, sono diventate così popolari in Occidente? La loro popolarità rispecchia un effettivo aumento dei casi nella popolazione, e se sì, perchè? Oppure questi disturbi stanno subendo un Alimentazione processo di popolarizzazione conseguente a fattori più sociali e comunicativi che reali?
Cominciamo dall’inizio. Cosa si intende con intolleranza al lattosio e intolleranza al glutine dal punto di vista biologico e quali sono le basi fisiologiche di questi due disturbi?
Si definisce intolleranza al lattosio l’incapacità da parte delle cellule intestinali di produrre un enzima, la lattasi, in grado di scindere lo zucchero disaccaride lattosio, presente nel latte di tutti i mammiferi, nei due componenti saccaridici che lo compongono, glucosio e galattosio. Il disaccaride lattosio non risulta digeribile e tende a produrre fenomeni fermentatori all’interno del lume intestinale, da qui l’insorgenza di una serie di sintomi piuttosto aspecifici, che vanno dal senso di gonfiore addominale alla diarrea,
passando per cefalee e astenia generale. E’ importante sgombrare il campo da equivoci in merito all’uso improprio della parola “allergia”, che non è in alcun modo applicabile all’intolleranza al lattosio. Le allergie comportano un coinvolgimento del sistema immune dell’organismo e la vera allergia al latte comporta una attivazione del sistema immunitario contro specifiche proteine che compongono il latte. Non si tratta dunque di allergia. Altro equivoco piuttosto comune è quello che vede coloro che soffrono di questo disturbo come soggetti “malati”, ma anche l’opposta posizione che vede in questi soggetti
degli individui “primitivi” quindi ritenuti “più sani” degli altri.
L’incapacità di digerire il lattosio è infatti dovuta ad una mutazione genetica che non è distribuita in modo uniforme nella popolazione umana moderna. Tutti (o quasi) i neonati sono in grado di digerire il lattosio presente nel latte materno o nei surrogati artificiali. Ma allo svezzamento solo i bambini portatori della mutazione continueranno a produrre l’enzima per il resto della loro vita adulta.
I non portatori subiscono quello che in termine tecnico si chiama “shutdown della lattasi”. Ovvero, l’enzima cessa di venir prodotto.
In realtà, la situazione è più fluida di come l’ho descritta e la capacità di produrre l’enzima non è un tutto-o-nulla. Esiste un polimorfismo genetico che produce individui con maggiori o minori capacità di digestione dei latticini, così come periodi di astensione totale da questa categoria di alimenti possono produrre casi di intolleranza al lattosio.
Come molti già sanno, questa situazione riflette una serie di eventi collegati alla evoluzione umana recente, che, tra 10000 e 7000 anni fa ha visto alcune popolazioni umane addomesticare bovini, ovini, caprini e cammelli.
Con la domesticazione del bestiame da latte, le prime comunità di agricoltori ebbero accesso ad una risorsa, il latte animale, che prima di allora era disponibile solo durante l’allattamento materno. Sia ben chiaro: mutanti in grado di digerire il latte anche in età adulta ne esistettero sempre, ma finchè il latte cessava di essere presente nella dieta allo svezzamento, i mutanti non avevano alcun vantaggio selettivo dalla loro capacità di digerirlo, e con tutta probabilità la loro presenza rimase marginale nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori del Neolitico, un po’ come oggi accade con gli individui albini. Le cose cambiarono con la domesticazione del bestiame da latte.
Nelle prime comunità di pastori, un bimbo capace di digerire il latte anche da ragazzino poteva essere in grado di sopravvivere anche durante le carestie, quando bere il latte degli animali era l’unica alternativa ad ucciderli e mangiarseli, ultima opzione prima di morire di fame. Fu così che nelle comunità di agricoltori e pastori si diffusero i mutanti.
La teoria dell’evoluzione ci dice che in nessun modo le mutazioni genetiche possono verificarsi in relazione ad un evento. Una popolazione di giraffe con il collo corto non può innescare una mutazione che allunghi le vertebre cervicali e regali loro un collo più lungo per brucare le cime degli alberi, quando i cespugli al suolo sono secchi e immangiabili, o ha già al suo interno qualche individuo a collo lungo, oppure si estinguerà, per citare un celebre esempio. Le mutazioni che innescano i fenomeni evolutivi avvengono sempre in modo casuale. Possono però rimanere silenti nei geni della popolazione, in attesa che il cambiamento delle condizioni ambientali offra loro un vantaggio, come in questo caso.
Si parla in questo caso di “mutazione neutrale”, ovvero una mutazione che non migliora né peggiora le probabilità di sopravvivenza del portatore nell’immediato: siamo abituati a pensare che che le mutazioni genetiche portino sempre un rapido vantaggio o (assai più spesso) uno svantaggio al portatore, ma spesso non è così. Le mutazioni restano silenti nel DNA e vengono trasmesse di generazione in generazione, in attesa che qualcosa nell’ambiente cambi e offra loro una “possibilità”. E nelle popolazioni che non addomesticarono mai bestie da latte? Semplicemente, la percentuale di mutanti rimase molto bassa. Questo modello evolutivo spiega la ineguale distribuzione percentuale dei mutanti tra le diverse popolazioni umane e ci dice che nessuna delle varianti espresse dagli individui è “migliore” o “peggiore” di un’altra.
Un caso analogo si verifi ca con l’intolleranza al glutine, che meglio sarebbe chiamare celiachìa, che però è classifi cata come malattia autoimmune ad attivazione ambientale. Nel caso della celiachia, la presenza di alimenti contenenti glutine, e in particolare la prolammina gliadina, una delle costituenti il glutine,
cioè la componente proteica di molti semi di cereali (come il frumento, il farro, la segale…) causa l’attivazione del sistema immunitario contro questa specifica proteina e determina una reazione anticorpale diretta contro i villi intestinali.
I linfociti T attaccano così le cellule tappezzanti dei villi intestinali, determinandone uno stato infiammatorio persistente, che causa negli anni l’atrofia degli stessi villi intestinali e il conseguente malassorbimento generale di tutte le sostanze che transitano dal lume intestinale stesso. I sintomi sono ben noti dall’antichità e comprendono diarrea profusa, gonfi ore addominale, crescita infantile stentata e rachitismo, nell’adulto si osserva spesso stanchezza generalizzata e anemia. La celiachia cronica è considerata oggi come fattore di rischio per lo sviluppo di adenocarcinoma intestinale e linfomi.
Come l’intolleranza al lattosio anche la celiachia ha una base genetica, anche se il collegamento con sequenze geniche mutate è ancora in fase di studio e non tutti i geni coinvolti sono stati ancora mappati. Anche nel caso della celiachia, il polimorfismo allelico, ovvero la probabile presenza di svariate mutazioni nei geni che causano la malattia, fa sì che eistano vari gradi di gravità dei sintomi.
Anche le percentuali di incidenza nella popolazione generale sono rese incerte da questo stato di variabilità dei sintomi, in quanto le uniche diagnosi efficaci di questa malattia sono quelle mirate ad individuare gli anticorpi antigliadina e vari altri anticorpi contro molecole analoghe. Oppure attraverso una gastroscopia e biopsia del duodeno che riveli i danni e le condizioni infiammatorie del tessuto intestinale.
Ma tali test vengono prescritti ed eseguiti solo su pazienti per i quali vi sia un sospetto di celiachia, ovvero coloro che presentano i sintomi più gravi. Inoltre, la ricerca anticorpale e gli esami clinici, presentano esiti incerti su pazienti che hanno smesso di assumere diete contenenti glutine da alcuni mesi ed in fase di remissione dalla malattia, per questo il quadro spesso risulta lacunoso e incerto.
Proprio a causa di questo stato di cose, in rete si trovano molti siti che distinguono l’intolleranza al glutine dalla celiachia vera e propria, o che ripartiscono le patologie in tre categorie distinte: intolleranza al glutine, allergia al grano e celiachia. Per la medicina ufficiale, tuttavia, la celiachia, con la sua sintomatologia variabile, è l’unica patologia diagnosticabile con certezza.
La presenza di sintomi aspecifici in vaste fasce di popolazione, sovente collegati a cosiddette “intolleranze al glutine”, sono stati oggetto di diversi studi clinici di cui parleremo tra poco, perchè hanno parecchie analogie con l’intolleranza al lattosio.
In ultimo, mi interessa ricordare come anche la malattia celiaca sia collegata all’evoluzione recente di Homo sapiens sapiens, stavolta in relazione alla domesticazione di cereali, e non di animali. E stavolta come caso opposto al precedente di mutazione subletale, o comunque svantaggiosa.
E’ facile immaginare, infatti, che le mutazioni alleliche collegate a questa patologia fossero piuttosto diffuse nella popolazione di cacciatori-raccoglitori che vivevano nelle praterie e nelle foreste post-glaciali circa 12000 anni fa, prima dell’inizo della Rivoluzione Agricola.
La dieta di queste persone era composta in minima parte di cereali, in quanto queste graminacee a spiga maturano solitamente all’inizio dell’estate e l’unica parte commestibile sono i chicchi annidati nelle spighe. Ma una prateria selvatica è composta da centinaia di specie di graminacee diverse (a differenza di un moderno campo di grano), solo pochissime delle quali commestibili. La raccolta dei cereali selvatici risulta faticosa ma redditizia solo se si ha la possibilità di consumarle sul posto oppure immagazzinarle.
Non è un caso che tra le specie animali evolutesi per sfruttare questa risorsa troviamo criceti e scoiattoli, simpatici roditori noti a tutti per la loro abilità di fare scorte, addirittura dotati di tasche guanciali per riporre i semi e migliorare gli sforzi di immagazzinamento.
I nostri progenitori erano nomadi e in nessun modo avrebbero potuto trasportare sacchi di granaglie con sé per tutto l’anno. Per cui è presumibile che il consumo di cereali fosse una attività stagionalizzata e transitoria. In un contesto del genere, i mutanti celiaci avrebbero forse sperimentato alcuni disturbi passeggeri quando il clan si fermava nelle praterie all’inizio dell’estate per nutrirsi di granaglie, ma sarebbero stati in salute per il resto dell’anno.
Con la domesticazione dei cereali, le cose cambiano, ma stavolta in peggio.
I bambini celiaci ora sono soggetti a una dieta prevalentemente a base di cereali, la loro mutazione, da neutrale, diventa improvvisamente subletale. Si indeboliscono, contraggono malattie e muoiono. Come conseguenza, la presenza percentuale della mutazione nei villaggi dei primi agricoltori cala, senza tuttavia scomparire. E oggi?
Oggi osserviamo questi tre fenomeni, che influenzano diffusione e percezione sociale di entrambe queste patologie:
1. Aumento degli alimenti lavorati che possono presentare lattosio e glutine al loro interno, pur non essendo riconoscibili a prima vista come appartenenti a nessuna delle due categorie: latticini e prodotti a base di cereali. Prodotti della latteria e glutine sono spesso usati per conferire alcune caratteristiche desiderabili ai prodotti semilavorati o lavorati.
Naturalmente, soggetti celiaci o intolleranti al lattosio reagiranno alla presenza delle molecole in questione anche se assunte in alimenti “atipici” e non riconoscibili, perchè, non mi stancherò mai di ripeterlo, si manifestano intolleranze e reazioni allergiche verso singole molecole, mai verso cibi nel loro complesso. Fortunatamente, molte marche alimentari seguono le indicazioni di esplicitare la presenza di tali molecole in etichetta, per cui si tratta di acquisire una sana abitudine alla lettura…delle etichette!
2. Effetto “nocebo” innescato dalla penetranza sociale e dal martellamento comunicativo connesso a queste patologie. Molti conoscono il principio su cui si basa il cosiddetto “effetto placebo”: il cervello umano è in grado di elaborare risposte fisiologiche a svariate patologie, se solo si ”convince” che una certa terapia gli sarà utile. Tale effetto permette ad un malato terminale afflitto da una patologia dolorosa e progressiva, di provare un momentaneo sollievo, al solo somministrargli delle pillole di zucchero, se lo si convince che esse sono un rimedio miracoloso. Il cervello del paziente scatenerà una serie di endorfine che faranno davvero sentire meglio il paziente,
almeno per un po’. L’effetto nocebo è il fratello meno conosciuto del placebo, ed è il suo alter ego: se un soggetto sano si convince di soffrire di una data patologia, magari una malattia di cui si parla molto, che abbia un impatto emotivo elevato, ecco che comincerà ad attribuire a tale patologia ogni sintomo aspecifico che prova. Peggio: arriverà a sviluppare sintomi coerenti con quella malattia, pur non soffrendone.
A questo proposito sono stati effettuati studi proprio sulla celiachia su un campione di soggetti non celiaci, testati clinicamente ma ignari dell’esito delle analisi. Divisi in due gruppi, ad entrambi vennero offerti alimenti privi di glutine, ma al primo gruppo venne detto che gli alimenti erano privi di glutine, al secondo invece venne ripetuto che si trattava di alimenti contenenti glutine e che avrebbero dovuto assumerli per diversi giorni, per integrare i dati delle analisi preliminari (si veda sopra, per le ragioni di questo tipo di analisi su soggetti celiaci).
Ebbene: i soggetti del secondo gruppo sperimentale accusarono dolori addominali, diarrea, stanchezza, cefalee diffuse, pur non avendo assunto glutine e non essendo celiaci!
Naturalmente c’è una ragione per tutto ciò, ma essa ricade nel dominio della sociologia, non in quello della medicina.
Il problema è duplice: di queste patologie si parla moltissimo, come abbiamo visto da una rapida analisi ai motori di ricerca, e le sintomatologie che le accompagnano sono spesso vaghe, molteplici e piuttosto aspecifiche.
C’è da stupirsi che un numero crescente di persone arrivi a suggestionarsi al punto da autodiagnosticarsi una intolleranza al lattosio o una non specificata “intolleranza al glutine” nella nostra società ortoressica? Questo quadro d’insieme si arricchisce e acquista senso anche alla luce delle migliaia di siti e blog che propongono “test” e “terapie” o alimenti per “diagnosticare” e “guarire” da queste patologie.
Dove c’è una domanda, si originerà una offerta.
3. Cambiamenti nel pool genico delle popolazioni umane e perdita delle specificità microevolutive locali. Come abbiamo visto, la presenza percentuale o frequenza di queste due patologie nella popolazione è un evento collegato a fenomeni molto antichi e ad un certo grado di segregazione genetica, che ha portato in passato ad avere popolazioni in cui individui mutanti in grado, ad esempio, di digerire il latte fossero la maggioranza.
Vi erano popolazioni caratterizzate da varianti alleliche specifiche. Ma che sta succedendo
a Homo sapiens nel corso degli ultimi cinquant’anni? Il miglioramento dei mezzi di trasporto e la globalizzazione dell’economia sta producendo il più gigantesco rimescolamento genetico che la nostra specie abbia mai sperimentato.
Esseri umani che solo un secolo fa non avrebbero mai potuto incontrarsi, o lo avrebbero fatto a costo di viaggi lunghissimi e rari nel corso di una vita, oggi lavorano gomito a gomito in un ufficio, prendono voli intercontinentali, si innamorano e magari mettono su famiglia. Questo processo, presumibilmente, produrrà nuova variabilità genetica e annullerà molti microadattamenti come l’intolleranza al lattosio, perchè se oggi possiamo dire che, a livello probabilistico, alcune etnie e alcune popolazioni mostrano
una percentuale maggiore di persone intolleranti al lattosio, domani non saremo più in grado di dirlo con certezza.
Al tempo stesso, le migrazioni e il cambiamento di stile di vita e abitudini alimentari, esporrà molte persone a diete differenti da quelle per le quali il loro organismo si è adattato, causando così un aumento del numero di casi.
Un tema affascinante che tratteremo nei prossimi numeri.
Simone Masin, M.Sc, PhD.,M.ES.,
Università Bicocca di Milano