Il danno muscolare da allenamento eccentrico: cos’è e come monitorarne l’andamento
a cura di Giuseppe Coratella – Ph.D Docente Ricercatore Università degli Studi di Milano | Membro del Collegio Didattico Unico della Scuola di Scienze Motorie
La contrazione eccentrica avviene quando il muscolo si allunga attivamente contro un carico esterno di entità maggiore. Prendendo ad esempio una ripetizione alla leg extension, una volta arrivati all’estensione del ginocchio, la forza espressa dal quadricipite diminuisce fino ad essere inferiore a quella del peso selezionato, permettendo al ginocchio di flettersi ma controllando attivamente il carico.
Nota bene, per effettuare una contrazione eccentrica non occorre che il carico esterno sia sovramassimale, ma che il carico esterno sia maggiore della forza espressa dal muscolo in quel momento.
La contrazione eccentrica si differenzia da quella concentrica per la possibilità di esprimere una forza maggiore. Inoltre, si registra una minor attivazione elettromiografica (cioè meno muscolo attivo in quel momento) quando si esprime la stessa forza tramite una contrazione eccentrica vs concentrica.
Vale anche la pena ricordare che la contrazione eccentrica impiega più aree del cervello e ha una programmazione anticipata rispetto a quella concentrica.
Ma…cosa teme il cervello cosicché debba “preparare meglio” una contrazione eccentrica? Quando effettuiamo una serie di contrazioni eccentriche, cioè quindi un allenamento a prevalenza eccentrico, alcuni sarcomeri tendono a sovra-allungarsi e quindi a rompersi. Questo scatena una reazione meccanico-cellulare per poter poi riparare i sarcomeri rotti attraverso un processo infiammatorio.
Tutto questo prende il nome di danno muscolare indotto da esercizio (dall’inglese Exercise-Induced Muscle Damage, EIMD), i cui sintomi iniziano a comparire circa 24h dopo e possono perdurare per parecchi giorni. Tra parentesi, ovviamente tutto questo non ha nulla a che fare con l’acido lattico!
Tra i vari sintomi, o markers, abbiamo il calo della forza, l’aumento della concentrazione ematica di proteine muscolari, il calo del range di movimento passivo, il gonfiore muscolare e per ultimo, come tutti noi sappiamo molto bene, un fastidioso ma quanto bello dolore muscolare.
Quest’ultimo viene definito come dolore muscolare ad insorgenza ritardata (Delayed-Onset of Muscle Soreness, DOMS), che come gli altri compare circa 1-2 giorni dopo l’allenamento e tende a scomparire dopo 4-7 giorni. La misurazione di tutti questi markers giorno per giorno, se comparata ai valori pre-esercizio, ci può dare un’idea abbastanza accurata del processo di recupero.
Tuttavia, la misurazione dei DOMS è particolarmente facile, veloce, a basso costo e decisamente affidabile. Infatti, attraverso una scala visuale, si riesce a quantificare l’ammontare di dolore percepito, a patto di seguire procedure standard di familiarizzazione ed istruzione dell’atleta/cliente.
Per ultimo, come preparatori, noi possiamo aumentare/ diminuire l’insorgenza del EIMD attraverso manipolazioni dell’intensità del carico, del range di movimento, del numero di ripetizioni, della velocità di esecuzione ed altro ancora. Ma l’allenamento eccentrico fornisce anche notevolissimi adattamenti a partire dalla seconda sessione, definendo così il fenomeno del Repeated-Bout Effect (RBE).
L’RBE dipende da meccanismi di varia natura, ed è responsabile del minore EIMD che insorge dopo la seconda sessione di allenamento eccentrico. Cioè, se dopo la prima sessione si registravano valori di DOMS elevati e perduranti nei giorni, dopo una identica seconda sessione eccentrica i valori di DOMS sono inferiori e perdurano per meno tempo.
In definitiva quindi, abbiamo a disposizione delle metodiche per controllare l’avanzamento del recupero post-allenamento eccentrico. Cioè, un monitoraggio della supercompensazione acuta, specifica per questo tipo di allenamento.
Vitamina C e sistema immunitario
a cura di Massimo Negro – PhD Ambulatorio di Nutrizione Clinica e dello Sport, Centro di Medicina dello Sport Voghera, Università di Pavia
Dalle teorie di Linus Pauling ad oggi sono stati fatti enormi passi in avanti circa la comprensione del ruolo fisiologico della vitamina C (acido ascorbico).
Sebbene sia noto che una dieta che soddisfi l’assunzione giornaliera di vitamina C, combinata con un appropriato stile di vita, influisca positivamente sul sistema immunitario, riducendo la suscettibilità alle infezioni, i dati disponibili non supportano la possibilità (su soggetti sani e ben nutriti) che un’addizionale supplementazione preventiva di vitamina C (da 500 mg a 2 g/die, per settimane o mesi) possa ulteriormente rafforzare il sistema immunitario o ridurre l’incidenza d’infezioni respiratorie.
Anche i dati sulla possibilità di ridurre la durata dei sintomi influenzali o delle polmoniti, attraverso un trattamento ad alte dosi di vitamina C una volta iniziata la malattia, non sembrano dare risultati incoraggianti. I livelli di vitamina C nel plasma e nei tessuti di deposito sono finemente controllati da una famiglia di proteine denominate “Sodium-Dependent Vitamin C Transporters” (SVCT), le quali ne regolano l’assorbimento intestinale, il passaggio all’interno delle cellule, il riassorbimento renale e l’escrezione urinaria.
Proprio grazie a questi meccanismi, le variazioni delle concentrazioni fisiologiche di vitamina C nell’organismo possono avvenire soltanto entro intervalli piuttosto ristretti e l’assunzione di megadosi (> 1g/die per settimane o mesi), attraverso una sua supplementazione, non fa altro che ridurne gli assorbimenti e aumentarne l’eliminazione attraverso le urine.
L’omeostasi plasmatica di vitamina C per l’uomo è fissata intorno a 50 – 70 mol/l. Diversa è invece la situazione per soggetti affetti da malattie croniche non trasmissibili (MCNT), cioè patologie caratterizzate da una infiammazione cronica sistemica e che includono principalmente i tumori, le malattie respiratorie croniche, il diabete (tipo 2), le cardiopatie e l’obesità. Le MCNT portano i soggetti affetti ad essere più suscettibili al rischio d’infezioni respiratorie virali acute.
Inoltre, malattie cardiovascolari, diabete e obesità sono stati identificati come i primi tre fattori di rischio per infezione da SARS-CoV2, l’agente virale che porta a sviluppare il COVID-19. Secondo evidenze scientifiche recenti, tali soggetti sembrano poter beneficiare di un apporto supplementare di vitamina C, attraverso integratori alimentari, essendo spesso affetti da carenza subclinica di vitamina C, anche con dieta adeguata.
La supplementazione di vitamina C sembra migliorare lo stato di salute generale di questi pazienti, suggerendo indirettamente la possibilità di ridurre anche la suscettibilità alle infezioni. Su quest’ultimo punto mancano ancora, tuttavia, evidenze dirette. Anche il ruolo della vitamina C nella fisiologia dell’esercizio sembra essere oggi abbastanza chiaro.
Una regolare supplementazione di vitamina C (soprattutto ad alte dosi: 1-2 g/die per settimane o mesi) è fortemente sconsigliata poiché, essendo l’acido ascorbico un potente antiossidante e riducendo la produzione di radicali liberi, contrasterebbe con i meccanismi di adattamento muscolare al carico allenante, i quali hanno necessariamente bisogno di una certa “dose” di specie radicali che per potersi esprimere e migliorare nel tempo.
Inoltre, diversi studi hanno dimostrato come l’assunzione di vitamina C negli atleti attraverso un’alimentazione bilanciata, fornisca già quantità giornaliere di vitamina C più che sufficienti a saturarne le riserve tissutali.
Solo in atleti coinvolti occasionalmente in sforzi fisici elevati (es. competizioni di lunga durata e intensità, come maratone, ultramaratone, IRON-MAN di triathlon, ecc.) o in soggetti con bassa concentrazione di acido ascorbico nel plasma (misurata e non ipotizzata), un’integrazione di vitamina C può essere giustificata per brevi periodi (una/due settimane), potendo ridurre l’insorgenza acuta (post-gara) dei sintomi infiammatori a carico delle mucose delle vie aeree superiori.
Composizione corporea funzionale
a cura di Massimiliano Mazzilli – M. Sc., E-Campus University
Il concetto di composizione corporea funzionale è un concetto recente, che si sta sviluppando negli ultimi anni grazie alla continua ricerca scientifica e al riscontro ottenuto in ambito sportivo.
Analizzare un soggetto rispetto alla popolazione standard è ormai desueto e poco utile, in quanto ogni individuo è a se ed è necessario monitorare il soggetto rispetto a se stesso e rispetto alla popolazione di riferimento. Facciamo chiarezza: ha senso monitorare un nostro cliente in ambito fitness e confrontare lo stesso non rispetto ad una popolazione generale ma rispetto ad una popolazione specifica.
Ad oggi, con l’utilizzo di software avanzati, è possibile monitorare nel dettaglio la qualità muscolare specifica, la relazione tra tessuto muscolare e acqua extracellulare ed il rapporto muscolo/grasso.
Rapportare il muscolo alla quantità di acqua extracellulare fornisce al professionista del movimento e di composizione corporea la possibilità di scindere una ritenzione da catabolismo (scarso muscolo) da una reale ritenzione (buon muscolo).
Conoscere il soggetto, inquadrare lo stesso con un fit-check approfondito e monitorare i progressi con la BIA ci dà la possibilità non solo di migliorare il lavoro sul campo, ma anche di poter raggiungere l’obiettivo con un vero e proprio approccio scientifico.
Evoluzione dei sessi e pressioni evolutive differenti sul sesso femminile: verso una maggior comprensione delle radici della medicina di genere e le sue ripercussioni sul fitness
a cura di Simone Masin – M. Sc, PhD, M.ES Università Bicocca di Milano
Per quanto la presenza di due sessi negli organismi a noi più familiari ci sembri normale e ubiquitaria, in natura la presenza di due, e due soli sessi, non è così scontata. L’origine della suddivisione degli organismi appartenenti alla stessa specie, quindi potenzialmente interfertili, cioè in grado di riprodursi tra loro, è antica e risale al periodo cosiddetto cellulare dell’evoluzione biologica.
Quello che è largamente sconosciuto ai più, tuttavia, è che l’invenzione della riproduzione sessuale ha preceduto di parecchi milioni di anni quello del differenziamento tra sessi e della comparsa di cellule sessuali differenti, spermatozoi e ovuli: si parla infatti di gamìa per descrivere una modalità di riproduzione che comporti la fusione tra genomi appartenenti a individui diversi, di isogamìa se le due cellule sessuali coinvolte nel processo sono morfologicamente e funzionalmente identiche, e anisogamìa se invece le due cellule destinate a fondersi sono diverse, come nel caso di oociti e spermatozoi.
Si pensa che alla comparsa della riproduzione sessuale, le cellule che si fondevano tra loro fossero sostanzialmente identiche: i vantaggi della gamìa rispetto alla scissione binaria, in cui una cellula si divide in due cellule singole in modo autonomo, senza alcun apporto genetico da parte di un altro individuo, sono molteplici e ancora oggetto di studio, sicuramente l’introduzione di varianti genetiche e lo scambio di mutazioni utili ha favorito l’adattamento dei primi organismi a riproduzione sessuale.
Ancora oggi, alcuni organismi unicellulari (protozoi ciliati) associano alla modalità di moltiplicazione per divisione mitotica, una primitiva forma di sessualità, detta coniugazione, nella quale due individui si uniscono tra loro attraverso un ponte citoplasmatico al fine di scambiarsi DNA.
Da queste prime forme di sessualità, si sono differenziate le cellule sessuali, si pensa attraverso un modello di “corsa agli armamenti” secondo il quale, una parte della popolazione dei primitivi organismi a riproduzione sessuale ha iniziato a “risparmiare” sulla dotazione della singola unità riproduttiva, diminuendo gradualmente la quantità di citoplasma, sostanze nutritizie e organuli da stoccare in ogni cellula, in favore della quantità di cellule sessuali da poter produrre, fino a produrre unità riproduttive che erano essenzialmente solo pacchetti di DNA chiusi in un involucro citoplasmatico: erano nati gli spermatozoi.
Dall’altro lato della barricata, gli individui che continuarono a produrre cellule sessuali grosse e costose, provviste di citoplasma, organuli e sostanze di riserva, furono costretti ad aumentare gradualmente le dimensioni delle loro cellule sessuali, per permettere uno sviluppo corretto dell’embrione, nel caso queste si fossero fuse con cellule piccole e scarsamente dotate di nutrienti: erano nate le cellule-uovo.
Naturalmente, l’evoluzione assieme al differenziamento tra i gameti, lavorò anche sul differenziamento degli organismi che li producevano: maschi e femmine sono infatti diversi e soggetti a diverse pressioni selettive, connesse a diversi obiettivi.
Il sesso maschile punta tutto sulla quantità dei gameti prodotti, quindi è soggetto a pressioni selettive che massimizzano la quantità di accoppiamenti portati a termine e, dal momento che l’investimento energetico che compie su ciascuno spermatozoo è minimo, tende ad essere poco selettivo.
Il sesso femminile è invece molto più selettivo e pretende che ogni singolo oocita sia fecondato dal miglior maschio a disposizione. Ad un livello di complessità maggiore, anche la longevità e i processi di invecchiamento dei due sessi sono nettamente diversi: i maschi, producendo ex novo tutte le loro cellule sessuali, sono in grado di riprodursi anche ad età avanzate; le femmine, invece, avendo in dote un numero prestabilito di oociti, e (quantomeno nei mammiferi), investendo molte energie nella gestazione e nella crescita della prole, hanno processi di invecchiamento, marcati dalla menopausa, molto più netti e definiti.
Se è vero che nella specie umana l’evoluzione culturale che si è affiancata all’evoluzione biologica negli ultimi 10.000 anni, ha cambiato profondamente le carte in tavola, permettendo alle donne, soprattutto nei Paesi occidentali, di gestire la riproduzione e l’invecchiamento in modo meno severo e maggiormente compatibile con aspettative di vita più generose, molti restano ancora i punti connessi alla gestione del fitness e dell’invecchiamento femminile da migliorare e comprendere.
Programmare l’allenamento con il ciclo mestruale: personalizzazione al femminile
a cura di Stefano Zambelli MFS M.Sc. Direttore Tecnico ISSA Europe
Sfruttando la ‘’ciclicità’’ femminile fisiologica ed adattando i carichi di allenamento a ciascuna donna, si possono migliorare le prestazioni dello 0,5-1%. Sembra poco, ma ad alti livelli può fare la differenza! La differenza che passa tra una medaglia e un 15° posto. Ci sono delle APP (FITR Woman, Fit Bit) che permettono di archiviare carichi utilizzati e sintomi individuali nelle 4 fasi del ciclo e di utilizzare poi gli stessi come ‘’media’’ su ogni singola atleta per migliorarne la gestione globale in allenamento.
Ad esempio problemi di sonno e recupero nella 4^ fase (luteale avanzata o pre-mestruale PMS) oppure grande livello di energia nella 2^ fase (follicolare avanzata pre-ovulatoria) da sfruttare con l’inserimento di carichi più intensi. Oppure nella fase del ciclo con minore sensibilità insulinica e maggiore instabilità insulinica (fase luteale centrale a dominanza progestinica) inserire più proteine e più grassi ‘’ buoni’’ nei pasti per stabilizzare la glicemia (carico glicemico) così come più piccoli pasti e spuntini per lo stesso motivo.
In definitiva dati utili per programmare al meglio in anticipo ponendo in essere accorgimenti individuali, sia come soluzioni allenanti sia come alimentazione abbinata alla situazione. La cosa fondamentale nelle atlete di livello è posizionare con massima efficacia e con logica i blocchi di allenamento intensivo e, di contro, le misure di rigenerazione per ottimizzare la resa prestativa.
Nel fitness/wellness si può sfruttare il tutto per una migliore gestione della cliente e della sua sensazione di salute e benessere. Molte atlete di alto livello (circa il 50%) affermano che le fluttuazioni ormonali durante il loro ciclo mestruale (quando hanno un ciclo fisiologico, ndr) hanno ostacolato la pianificazione del loro allenamento e le performance.
Gestire le fluttuazioni ormonali di un ciclo fisiologico di 28 gg per essere più precisi, specifici ed effi caci come allenatori nel somministrare la tipologia di allenamento è una sfida intrigante ancora agli inizi e non tutte le risposte sono state trovate dalle indagini scientifiche per sfruttare al meglio le complesse funzioni bio-psicologiche femminili.
Le donne ‘’nei 28 giorni’’ si muovono, si adattano, si sentono e ‘’sentono’’, pensano in modo anche notevolmente diverso durante lo scorrere delle 4 FASI (indicativamente 1°-7°, 8°-14°, 15°-22° e 23°-28° giorno), con variazioni individuali anche marcate. Il ciclo uterino-ovarico non è un ostacolo all’allenamento come spesso è stato detto ma una grande opportunità fisiologica per migliorare la salute generale, l’aderenza all’allenamento delle donne e la performance delle atlete.
Maschi e femmine sono chiaramente diversi su molti aspetti muscolari che possono diversificarne anche la fisiologia e la salute: composizione delle fibre muscolari, funzione delle vie anaboliche e cataboliche, interazioni ormonali, contenuto e funzione mitocondriale.
Queste differenze possono influenzare notevolmente lo sviluppo e la progressione di varie atrofie muscolari, tra cui l’atrofia da disuso. Sono necessari studi approfonditi sul sesso femminile che mancano per lo più in bibliografia.
La scienza degli Aminoacidi
a cura di Emanuele Giordano – MD Fisiologia computazionale quantitativa e Ontologia medica
Questa presentazione cerca di riassumere sinteticamente le molteplici funzioni degli aminoacidi, il loro ruolo nello sport, nelle diete e l’influenza che possono avere in salute e malattia.
Gli aminoacidi possiamo distinguerli in essenziali e non essenziali e la presentazione spiega quali sono le fondamentali differenze in questo senso. Sebbene molti aminoacidi vanno a costruire nelle nostre cellule le proteine che sono necessarie al funzionamento biologico dell’organismo, esistono anche aminoacidi non proteici che non vengono quindi incorporati nelle proteine ma che comunque hanno un ruolo biologico di rilievo.
E’ necessario comprendere che molte azioni biologiche degli aminoacidi dipendono da un’azione di concerto degli aminoacidi tra di loro. Le necessarie proteine alimentari presenti nei cibi servono a fornire aminoacidi alle cellule, ma il cibo proteico si caratterizza per quantità e tipi di aminoacidi differenti, senza per questo che si possa dire che contengano i loro aminoacidi nei rapporti stechiometrici migliori per massimizzare l’effetto di sintesi delle proteine cellulari.
La scoperta che particolari formulazioni stechiometriche di aminoacidi possono ottimizzare al massimo la sintesi delle proteine biologiche ha rivoluzionato le conoscenze sugli effetti profondi che gli aminoacidi essenziali possono avere su malattie, per il recupero più efficiente degli atleti e per azioni anti-age.
Squatting adapted: l’adattamento dello squat dal Test alla performance
a cura di Antonio Parolisi – M.Sc. – MFS ISSA Europe
La comprensione della differenza del concetto di movimento rispetto a quello di esercizio è sempre oggetto di discussione nel mondo del fitness. Lo scenario dello squat, in questo senso, non fa eccezione.
Qualsiasi esercizio si prescriva o si pratichi in palestra o sui campi di gioco, alla base ha prima di tutto un movimento. Un insieme di atti motori complessi che racchiudono un patrimonio genetico di milioni di anni di evoluzione.
Lo squat prima di essere un esercizio che si pratica in palestra con sovraccarichi macchine o qualsiasi altro strumento del panorama del fitness è prima di tutto un movimento della vita di tutti i giorni. Accomuna tanto un bambino che gioca al pavimento quanto un nonno che si alza da una poltrona nel suo soggiorno passando per un giovane adolescente fino ad uno sportivo professionista.
Lo squat è radicato in un movimento di accosciata che deve essere sempre mantenuto, allenato e all’occorrenza adattato qualora il soggetto non riesca a rispettare i canoni di libertà del movimento nel rispetto della fisiologia articolare. Un rispetto che è estremamente soggettivo per la varietà della morfologia strutturale, dei limiti articolari, dettati dall’individualità, da eventuali infortuni precedenti o da uno stile di vita non idoneo.
Standardizzare dei movimenti e renderli versatili per tutti non solo è impossibile ma anche e soprattutto controproducente. Quello che funziona per una persona potrebbe creare problemi ad altri. Un classico esempio nello squat è la standardizzazione della posizione dei piedi come unica per tutti. È come dire che un scarpa di taglia 39-40 è l’ideale.
Sicuramente andrà bene per una buona fetta di mercato ma questa visione ristretta ad una taglia lascerà fuori tutti quelli che hanno una taglia più piccola così come quelli che ne avranno una più grande. La scarpa prima di essere acquistata va misurata, provata con qualche passo per poi decidere se ci si “sente a proprio agio”.
Nel movimento di squat così come nell’esercizio proposto in palestra lo squat va prima “provato e indossato” proprio come si fa con un paio di scarpe su misura. La differenza di conformazione del bacino, dell’anca, della lunghezza degli arti, del busto possono mettere in condizione 3 persone diverse di eseguire 3 movimenti diversi tra loro ma tutti perfettamente funzionali nella loro unicità.
L’adattamento dello squat, invece, diventa compito arduo e “studiato” del Personal Fitness Trainer. Il professionista non solo deve capire attraverso test e valutazioni quali sono i limiti del suo cliente ma deve soprattutto mettere in pratica una serie di strategie che volgono tutte al miglioramento di questi limiti.
L’aggiunta dei carichi nel fitness deve essere vista come un premio per aver raggiunto una buona padronanza del movimento. Questo perché ogni volta che si aggiungono carichi su uno schema di movimento “difettoso” non si fa altro che caricare sempre di più quel modello disfunzionale.
In considerazione che il Personal Fitness Trainer è prima di tutto un professionista dell’efficienza motoria bisogna aver ben chiaro che l’adattamento dello squat deve essere uno strumento di base per poter consentire la pratica di esercizi in palestra in piena sicurezza e confort.
Esercizio, allenamento ed invecchiamento
a cura di Francesco Felici – Ordinario Fisiologia umana Università degli Studi di Roma – Foro Italico
Il progressivo aumento della popolazione anziana ha spinto e sta spingendo molti studiosi ad analizzare il ruolo che riveste la perdita di forza nel causare debolezza muscolare, vista anche la sua forte associazione con tassi di disabilità e mortalità. Raccogliendo i dati si evince che le modificazioni neurali alla base del declino di forza nell’anziano rivestono un ruolo di notevole importanza rispetto alla perdita di massa muscolare di per sé.
In studi molto recenti si è messo in risalto il ruolo potenzialmente importante che riveste la corteccia motoria primaria nell’espressione della forza e l’interessante legame che potrebbe sussistere tra il declino cognitivo e quello della forza, aprendo così la strada a studi futuri in questa direzione; grazie alle tecniche d’indagine predette, si è scoperto molto anche riguardo gli adattamenti neurali che si verificano a seguito di allenamento contro resistenza; si è visto che l’individuo anziano, ma anche molto anziano, è allenabile come il giovane e ottiene dei miglioramenti altrettanto importanti supportando la convinzione che, l’allenamento contro resistenza sia un mezzo positivo ed importante per contrastare il declino della forza.
In particolare, si notano miglioramenti, associati a guadagni di forza, nel grado di attivazione centrale, nell’output dei motoneuroni spinali, nella frequenza di scarica delle unità motorie, nella qualità muscolare e nella coattivazione del muscolo antagonista. Inoltre, nonostante sembri che l’allenamento non influisca sul numero e sulla grandezza delle unità motorie, esso gioca, probabilmente, un ruolo fondamentale nella loro sopravvivenza grazie all’aumentato rilascio di fattori neurotrofici dato dall’allenamento.
Tuttavia, ancora oggi, i numerosi limiti che presentano le varie tecniche d’indagine analizzate e la carenza di studi longitudinali sugli anziani, non permettono l’estrapolazione di dati e conclusioni inequivocabili e quindi si necessita di ulteriori ricerche che siano indirizzate maggiormente verso l’analisi dei fattori neurali nell’anziano.
Allergie e intolleranze: quello che è importante sapere
a cura di Silvano Busin – Direttore Scientifico ISSA Europe già Direttore Riabilitazione Specialistica, Ospedale Sacco, Milano | Docente Corso Laurea in Fisioterapia, Università degli Studi, Milano
Si sono affrontate in modo sintetico le problematiche legate all’allergia e all’intolleranza che hanno diverse cose in comune ma sono profondamente differenti nell’espressività. Si può essere allergico e intollerante per qualsiasi tipo di sostanza organica ed inorganica.
Il processo allergico comporta sempre la creazione di anticorpi circolanti, preferibilmente della classe IgE, e si svolge in due fasi: la prima, della sensibilizzazione, in cui l’organismo riconosce l’elemento estraneo, lo categorizza e crea una memoria immunologica deputata ai mastociti; la seconda, legata alla risposta immunologica vera e propria, in cui vengono coinvolti i linfociti, nello specifico i linfociti B che sono gli unici che producono gli anticorpi.
Questi anticorpi sono specifici per ogni singola molecola ritenuta estranea all’organismo e possono innescare una reazione che va da semplici sintomi, tipo prurito e arrossamento, a sintomi molto gravi sino allo shock anafilattico che quasi sempre è fatale. Si è portato come esempio la malattia celiaca che si manifesta con particolari sintomi e con la presenza di specifici anticorpi.
Esiste poi una intolleranza al glutine che si manifesta in modo più semplice e con un percorso completamente differente. Anche per le intolleranze vale la presunzione di universalità dei prodotti che la causano: la differenza fondamentale è che non sono presenti anti corpi nel siero specifici e la sintomatologia in generale è più sfumata e solo in casi sporadici può diventare impegnativa. Come esempio si è citata l’intolleranza al lattosio, zucchero presente nel latte, che è assai comune nella popolazione, dovuta al fatto che scompare un enzima che lo digerisce.
Il test di valutazione è denominato “breath test” o test del respiro: l’aria espirata viene analizzata e si riescono a rilevare i metaboliti della sostanza in oggetto. Purtroppo sulle intolleranze alimentari si è sviluppata una moda e l’implementazione di numerosi test, di cui vengono citati i più rilevanti, che non hanno avuto alcuna validazione scientifica essendo definiti più volte, dai lavori presenti in letteratura, inutili e senza alcuna efficacia.
Il business è molto elevato, i social li sponsorizzano e quindi è assai difficile far capire la loro inutilità.
Concludendo, si deve ricordare che si può essere allergici e intolleranti a qualsiasi tipo di sostanza: la differenza sta nel fatto che nelle forme allergiche sono presenti anticorpi specifici e quindi il tutto è sostenuto dal sistema immunitario, mentre le intolleranze non creano anticorpi e il tutto è sostenuto in genere da alterazioni del sistema enzimatico.
Le età della donna: analisi evolutiva
a cura di Claudia Borelli – MFS ISSA Europe
e Raffaela D.G. Sartori – Ph.D. Psicologa, Psicoterapeuta
In questo intervento abbiamo visto come un professionista specializzato come uno psicologo può essere di supporto al lavoro di un Personal Trainer nella migliore scelta strategica per ottenere un lavoro effi cace andando a fare perno su punti fondamentali nello sviluppo del soggetto “donna” nelle sue differenti fasi “evolutive”.
Queste tappe della vita di una donna sono imprescindibili una dall’altra per ottenere una donna felice, consapevole e forte dal punto di vista emotivo e fisico. Si potrebbe riassumere con la frase: il Personal Trainer si adatta al cliente e non il contrario.
Partiremo dall’adolescenza. In questa fase di crescita tra i compiti del trainer ci sarà quello di fare molta attenzione ad insegnare in maniera corretta il concetto di resilienza ad esempio, ovvero imparare ad “incassare” anche le sconfitte.
Lo sport diventa uno strumento importante per la crescita personale ottimale riuscendo ad elevare il livello di autostima e di concentrazione. Andando avanti, nell’età “adulta giovanile” il focus va invece posto sulla capacità di sviluppare l’autostima e di percepire nella maniera più corretta la propria immagine corporea.
Questo tra gli altri benefici apporta un miglioramento nella socializzazione. Nella fase successiva, la più importante nella vita di una donna, ci si troverà a gestire un corpo tutto nuovo (gravidanza) e uno stile di vita completamente trasformato (maternità). Quale potrà essere il metodo di intervento migliore di un trainer in questo momento così stravolgente?
Sicuramente il fatto di proporre un percorso ottimizzando il tempo a disposizione della neomamma che tramite una relazione esclusiva (qualcuno che si prende cura di lei) la porterà tramite sfide adeguatamente complesse ad uno stato di felicità nel vedere la sua immagine di nuovo soddisfacente.
Quando poi i figli crescendo diventano autonomi ecco che la donna si trasforma ancora una volta….frequentare la palestra soddisfa il suo bisogno di accudimento e nello specifico il Personal Trainer diventa un modo per prendersi di nuovo cura di sé.
La sua immagine sta cambiando ancora una volta e la sicurezza e la motivazione sono i due ingredienti fondamentali che un buon trainer dovrà dosare.
Nelle decadi successive i punti su cui organizzare una programmazione saranno sicuramente sia gli obiettivi che la qualità dell’allenamento che rispecchieranno le capacità delle signore più “grandi” nelle attività del loro tempo libero sociale, pubblico e attivo.
Una nonna che si allena bene in palestra potrà continuare a giocare con i nipotini e a salire le scale godendo della migliore qualità della vita …..meritata.
Allenamento della Forza e dell’Ipertrofia muscolare come contromisura nell’invecchiamento
a cura di Giuseppe Annino – Ph.D Prof. Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”
Negli ultimi anni, secondo il rapporto mondiale OMS sulla prevenzione delle cadute nell’anziano afferma che circa il 28/35% delle persone over 65, cade ogni anno, con un aumento di incidenza nel genere maschile rispetto a quello femminile.
Analizzando il decorso delle capacità funzionali lungo la linea temporale è possibile verificare quanto, già a partire dalla prima età adulta, sia fondamentale cercare di mantenere il livello di funzionamento della macchina corporea il più elevato possibile, ritardando il decadimento che, fisiologicamente, avviene con il passare dell’età. Tale decadimento può coinvolgere, indistintamente e complessivamente, il sistema nervoso, sia nelle sue componenti centrali (SNC) che periferiche (SNP).
I cambiamenti morfologici, biochimici e metabolici del SNC comportano un declino dei processi cognitivi e motori nell’anziano che, a seconda della zona maggiormente compromessa, sviluppano ipofunzionalità specifiche.
Negli ultimi anni, è stato osservato che tipologie diverse di allenamento possono contrastare specificamente il decadimento funzionale del SN dell’anziano.
Studi scientifici hanno dimostrato che la pratica regolare di esercitazioni di tipo aerobico, associate anche a stimoli cognitivi, favoriscono l’aumento dell’attività neuronale attraverso cambiamenti soprattutto a carico di neurotrasmettitori e fattori neutrofici, facilitando l’apprendimento motorio e l’efficienza nella deambulazione anche in soggetti affetti da patologie neurologiche (demenza senile, Alzheimer ecc.) (Petzinger GM, 2013).
Relativamente al Sistema Neuromuscolare, è stato già ampiamente dimostrato che l’allenamento della forza muscolare è in grado di aumentare l’attivazione dei neuroni nella corteccia motoria primaria, soprattutto dei neuroni corticospinali (via Piramidale) oltre che a contrastare le alterazioni morfologiche e funzionali delle unità motorie e del tessuto muscolare, tipiche delle condizioni di Sarcopenia e di Dynapenia, producendo benefici sull’equilibrio dinamico, attraverso anche la stimolazione del sistema neuroendocrino, sulla velocità di contrazione muscolare e sull’efficienza nella deambulazione.
Inoltre, per ritardare il decadimento morfologico e funzionale del sistema propriocettivo (es. fusi neuromuscolari) nell’anziano, evidenze scientifiche hanno dimostrato come l’uso dello stimolo vibratorio, attraverso la generazione del riflesso tonico d vibrazione, mediato dalla stimolazione dei propriocettori muscolotendinei e articolari, sia in grado di migliorare i livelli di forza muscolare, dell’equilibrio dinamico e dell’efficienza del passo.
È stato inoltre osservato che l’applicazione a lungo termine della Whole Body Vibration è in grado di stimolare anche nei soggetti anziani il sistema endocrino con relativo incremento della massa muscolare, al pari degli esercizi con sovraccarichi.
Pertanto, in relazione al maggior stato di compromissione dei diversi livelli del SN, l’allenamento della Forza muscolare sembra assumere un ruolo di primaria importanza nel contrastare i processi degenerativi migliorandone l’efficienza funzionale e motoria con relativa riduzione del rischio di cadute legati alla fragilità e alle comorbidità tipiche dell’età avanzata.
Infine, in termini di prevenzione, è consigliabile iniziare un programma di allenamento già in età adulta per garantire un più lento declino delle capacità funzionali, senza aspettare che l’insorgenza delle patologie neurodegenerative dell’età più avanzata dove l’intervento di un qualsiasi programma di allenamento risulterebbe molto meno efficace.
Difatti, studi recenti hanno evidenziato che un moderato allenamento, protratto per tutta l’esistenza della persona può aumentare l’aspettativa di vita e di spostare in avanti negli anni l’insorgenza dei processi di invecchiamento.
Il tocco nella pratica clinica: cosa succede con la comunicazione tattile
a cura di Andrea Manzotti – Osteopata e terapista, Consulente tecnico ISSA, D.O., M.Es, BS.P.
Abbiamo avuto il coraggio di parlare di tocco nell’ambito clinico e della ricerca della miglior relazione che il Personal Trainer deve avere con il cliente, ponendoci con una prospettiva etica molto precisa.
Il tentativo non è quello di scoprire i meccanismi biologici per dominarli e utilizzarli per giustificare quello che facciamo. Ma è quello di farne un buon uso e farne strumento di cura e di relazione per migliorarne i risultati Si parlerà quindi di tocco relazionale e di chi utilizza il tocco come strumento terapeutico, per capirne le possibili interazioni senza la pretesa di conoscere tutta la verità, perché, se così fosse, finirebbe il desiderio di conoscenza.
Il nostro augurio che questa prospettiva ci consentirà di essere sempre più appassionati e pronti a fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per studiare la natura del nostro intervento.
Molti dei meccanismi biologici, comportamentali e fisici conseguenti alla stimolazione tattile non sono ancora completamente chiariti, tuttavia le ricerche in questo campo mettono in luce la possibilità di creare un linguaggio non verbale e scoprire in modo empirico e sul campo i molti meccanismi che rendono così efficace questo tipo di stimolazione.
Quando si parla di tocco in ambito relazionale si parla quindi anche di relazione tra cliente e trainer. Sempre più forte è la necessità di formarsi nell’ambito delle soft skills. La capacità di indirizzare la qualità della relazione verso forme non verbali obbliga il PT a essere informato che “toccare” un cliente può aprire un mondo di reazioni non sempre piacevoli e apprezzate.
Approcciamoli allora evitando il rischio di dare alle nostre indicazioni “scientifiche” il carattere di un dover essere vincolante e colpevolizzante (si deve fare così) a favore di una proposta accogliente e non giudicante (si può fare anche così) che facilità la nostra proposta di collaborazione e favorisce il raggiungimento dei risultati voluti.
Allora quale tocco? Casuale, affettivo o discriminativo? Quali sono le differenze?
Godetevi questo meraviglioso viaggio alla scoperta della più antica forma di relazione fisica tra essere umani e la prima forma di contatto con il mondo esterno nel quale lo sforzo maggiore sarà l’adattamento dell’individuo alle sfide che l’ambiente produce.
9 passi per aprire uno studio PT
a cura di Roberto Tiby – Dott. Marketing e Comunicazione
La stragrande maggioranza di Personal Trainer ha un sogno nel cassetto: aprire un proprio “Studio”. E’ legittimo e, anche, giusto. Per quale motivo allora sono pochissimi, in proporzione, coloro che riescono a realizzare questo sogno?
Le ragioni sono molteplici ma la principale va ricercata nella paura di rischiare di investire in una attività imprenditoriale sotto certi aspetti complessa e sotto certi aspetti la più redditizia dell’intero settore del fitness.
Roberto Tiby, formatore ISSA e Consulente aziendale ha aiutato, in oltre 20 anni di attività, decine di trainer a diventare imprenditori e a coronare il sogno di avere uno studio di Personal Training proprio spiega in questa sessione quali sono i passi principali da compiere per vincere quelle paure.
Il problema della paura, infatti, è strettamente legato ad una impreparazione “commerciale” che è anche normale in chi ha studiato e si è interessato di altro per una vita intera. Per aprire un’azienda è necessario conoscere le basi dell’economia, del marketing e delle vendite oltre, come è logico che sia, avere in dote le dovute competenze tecniche.
Come se non bastasse la “nascita” o il lancio commerciale di un’azienda è un momento molto particolare, in cui, una scelta sbagliata può pregiudicare le sorti dell’impresa per sempre. Nella Start Up di un’azienda, infatti, le decisioni da prendere sono tantissime e delicatissime ma con metodo e ordine si può fare tutto al meglio e garantire così un successo commerciale all’idea di business.
Riassumendo gli step principali di un lancio commerciale nella sessione sono illustrati in nove passi specifici e su ognuno di essi viene fatta una riflessione specifica immaginando l’apertura di uno Studio di Personal Training:
- 1. Individua il bisogno che vuoi/puoi soddisfare: parti da ciò che ti piace ma guarda il mercato
- 2. Individua il luogo in cui vuoi soddisfarlo: valuta il potenziale della zona in cui vorresti aprire
- 3. Analizza la concorrenza in quel luogo: cerca di capire chi sta soddisfacendo il bisogno che vuoi andare a soddisfare anche tu
- 4. Definisci il tuo servizio per ogni variabile: prendi le variabili del marketing mix e definisci il tuo posizionamento
- 5. Verifica il tuo posizionamento: verifica che la tua idea così congeniata sia effettivamente posizionata e posizionabile sul mercato
- 6. Analizza e calibra il tuo posizionamento definitivo: apporta variazioni se capisci che il posizionamento non è sufficientemente forte
- 7. Fai preventivi e redigi un business plan: stima costi (con i preventivi) e ricavi (con delle assunzioni) e redigi un piano di incassi e spese pluriennale
- 8. Cerca la location e ri-verifica l’isocrono: cerca il luogo specifico in cui aprire lo studio e verifica che l’isocrono e i costi di investimento e gestione possano sostenere il business plan
- 9. Struttura una corretta campagna di lancio commerciale: progetta nei minimi dettagli i tre mesi precedenti all’apertura e i 6 mesi successivi all’apertura per garantirti un successo duraturo.
Nove passi, nove consigli ben specifici per garantire ad un progetto di Start Up di Studio di Personal Training le più alte probabilità di successo.
Supplementi multingredienti
a cura di Giuseppe D’Antona – Criams-Centro di Medicina dello Sport Voghera e Dipartimento di Sanità Pubblica, Medicina Sperimentale e Forense, Università di Pavia
Il campo della nutrizione dello sport vede interessanti sfide che gli scienziati dovranno affrontare nel prossimo futuro. Tra queste, certamente, un posto di primo piano sarà occupato dallo studio di efficacia e di safety di supplementi nutrizionali multingredienti assunti pre, in o post workout.
Da questo punto di vista, la presenza di un mercato particolarmente attivo, se non in alcuni casi eccessivamente competitivo, è responsabile di un elevato livello di incertezza e di una grande confusione, sia per gli addetti ai lavori che per gli stessi fruitori finali dei prodotti distribuiti.
Con l’obiettivo di iniziare un percorso di chiarificazione in tal senso, il presente studio sperimentale crossover a doppio cieco ha misurato gli effetti ergogenici acuti di un supplemento nutrizionale contenente creatina citrato (supplemento s1), un supplemento multingrediente contenente creatina, arginina, glutamina, taurina e beta-alanina (supplemento s2) e placebo (supplemento s3) su descrittori di fatica (velocità di conduzione fibrale, CV indicatore di fatica periferica e dimensione frattale, FD indicatore indiretto di fatica centrale) misurati durante contrazioni isometriche al 20% e 60% MVC del muscolo bicipite brachiale mediante elettromiografia di superficie multicanale, sEMG) e di performance (rate of force development, RFD; massima contrazione volontaria, MVC) misurati in 18 giovani maschi sani prima e dopo resistance exercise protocol [REP, Wingate exercise (warm-up + 1 x 30 s) carico pari al 5% of massa corporea seguito da 3 sets di dumbbell curling bicipiti al 70% di 1 RM] eseguito un’ora dopo assunzione dei supplementi.
Una minor riduzione post REP di MVC è stata osservata in seguito all’assunzione di s2 (-12%) vs s1 (-14.8%) vs s3 (-15.8%). Questa evidenza è stata confermata da una maggior riduzione del tempo ad esaurimento (time of task, TT) durante una contrazione mantenuta al 60% MVC.
Un’inattesa minor riduzione di CV è stata inoltre osservata post s2 e s1 rispetto a s3 sia al 20% che al 60% MVC. Nessuna variazione significativa tra gruppi è stata inoltre osservata riguardo RFD e FD.
Lo studio mette in evidenza come un approccio rigoroso sia in grado di rilevare differenze significative nell’efficacia di supplementi multingredienti rispetto a supplementi monoingrediente di riferimento. Nella fattispecie, un maggior effetto di riduzione della fatica è stato osservato nel supplemento multingrediente rispetto al monoingrediente con maggiore espressione di forza dopo un protocollo affaticante di resistenza, associata ad una riduzione del time of task al 60% MVC.
Nel corso di questa contrazione, una minore riduzione della velocità di conduzione rispetto a s1 e a s3 indica che il ruolo fisiologico della riduzione della velocità di conduzione nel determinare l’interruzione del task sia inferiore a quello determinato dalla forza iniziale.
Si ipotizza che l’effetto tamponante relativo ai componenti addizionali presenti in s2 possa svolgere un ruolo significativo nel determinare gli effetti rilevati rispetto al monoingrediente sia sulla riduzione della forza dopo RFD sia nel determinare la minor riduzione di CV, notoriamente correlabile al livello di acidosi intracellulare prodotta dal mantenimento di alti livelli percentuali di contrazione.
Dritti al cuore dell’efficienza fisica
a cura di Francesco Malatesta – MFS ISSA Europe
Negli ultimi 20 anni l’interesse crescente dei ricercatori verso l’efficienza e l’equilibrio psicofisico, si ricollega ad un più generico discorso inerente all’invecchiamento e all’aumento della popolazione globale, con prospettive che appaiono apocalittiche se il numero spropositato di “nonni del futuro” non presenteranno condizioni di buona salute.
Ad oggi, superata una certa età, si finisce con il soffrire di alcune patologie e gli scenari che si aprono sono impressionanti, anche paragonati a quelli vissuti con l’ultima pandemia. Preoccupano soprattutto i dati collegabili all’integrità e al buon funzionamento del sistema Cardiovascolare.
Solo in Europa, secondo i dati riportati nel 2017 dall’European Health Journal, infarto e Ictus rappresentano oltre il 40% delle cause di decesso, con 4 milioni di morti e costi sociali e sanitari elevatissimi. Occorre prendere seri provvedimenti, generare un’inversione di tendenza, altrimenti la situazione è destinata a peggiorare.
Il campo di azione è complesso, abbraccia aspetti sociali, familiari, ricreativi e lavorativi della vita umana e i rimedi richiedono piani di intervento che considerino alimentazione, allenamento, composizione corporea, stile di vita.
Le iniziative devono essere necessariamente multi fattoriali perché cuore, vasi sanguigni e sangue, con la loro anatomia e fisiologia, partecipano e sono sensibili ad ogni evento che interessi il corpo umano. Fautore della efficienza fisica, il Personal Trainer ISSA, può avere un ruolo di primo piano in questo processo.
Occorre però che si sperimentino test e modalità di verifica, di organizzazione e pratica dell’allenamento che arricchiscano quelli normalmente utilizzati, che amplifichino il senso dato dalla parola “Cardio” con l’espressione “monitoraggio della FC”.
Dal Fit Check iniziale a tutti i momenti che caratterizzano la pratica successiva e a prescindere dall’obiettivo da raggiungere (postura, estetica, performance, ecc.) sarebbe opportuno utilizzare come guida e strumento di supporto un cardiofrequenzimetro.
Le positive implicazioni sono diverse:
- 1. Migliorare e approfondire la conoscenza delle capacità generali del cliente, il che comportata un positivo sviluppo del piano personalizzato.
- 2. Implementare i sistemi di verifica e Follow Up cardiovascolari e correggere, sempre verso una maggiore personalizzazione, le tabelle che indicano i valori numerici corrispondenti alle percentuali di FC da seguire.
- 3. Interpretare le condizioni specifiche del cliente, con la possibilità di modulare ogni singola seduta e renderla adatta alle effettive disponibilità del momento.
- 4. Ottimizzare gli standard di sicurezza e verificare l’allenamento in tutte le sue espressioni, soprattutto in quelle che risultano più stressanti perché prevedono l’uso di sovraccarichi e di esercizi multi articolari.
- 5. Aumentare l’efficienza gestionale poiché, interpretando quanto e come il sistema cardiovascolare si è attivato durante l’allenamento, sarà possibile evitare inutili e spesso dannose ripetizioni finali e creare le giuste stimolazioni conclusive.
- 6. Assicurarsi il massimo dell’efficienza cardiovascolare perché, come confermato dalla ricerca scientifica, attraverso meta analisi e revisioni sistematiche di recente pubblicazione, la soluzione migliore è quella di completare “una stimolazione con resistenze progressive” con “allenamenti aerobici”.
La relazione attraverserà percorsi e ragionamenti utili ad intraprendere à “Semper Studentes ISSA!”
Evoluzioni della dieta ciclica e focus su PCOS (ovaio policistico)
a cura di Claudio Pecorella – Nutrizionista e autore della strategia dietetica ciclica (cyclicity diet)
I protocolli di nutrizione, generalmente, vengono adattati sulla popolazione maschile, perché è più semplice valutare parametri corporei ed ematici senza l’interazione degli ormoni femminili.
Lo studio effettuato sulla Cyclicity Diet® supera proprio questo stereotipo e mette la donna al centro di studi su composizione corporea, assunzione di cibo e attività fisica, in riferimento alle variazioni ormonali che avvengono durante il ciclo mestruale.
L’uomo non subendo questa danza ciclica degli ormoni ha sviluppato differenze significative nella sensibilità e secrezione di insulina, nell’assorbimento di glucosio, utilizzo dei nutrienti, nell’accumulo di massa grassa o muscolare, nelle variazioni del metabolismo, della forza e della resistenza.
Questi sono solo alcuni processi biologici differenti tra uomo e donna e di conseguenza, la comprensione dei meccanismi grazie ai quali queste differenze avvengono, permette di studiare meglio alcune patologie tipicamente femminili quali ad esempio endometriosi e sindrome dell’ovaio policistico ed anche di mettere a punto protocolli nutrizionali sempre più mirati.
La sindrome dell’ovaio policistico ( PCOS, dall’inglese PolyCystic Ovary Syndrome) è il disordine endocrino-metabolico più comune nelle donne con un importante contributo alla subfertilità, diabete e malattie cardiovascolari (Pundir et al., 2019).
La complessità e l’eterogeneità della patologia rendono ancora oggi controversa la sua definizione e difficile la comprensione dei meccanismi patogenetici che ne sono alla base.
Negli ultimi 20 anni, solide evidenze indicano che l’obesità centrale, un aumento della resistenza all’insulina, il suo legame con la disbiosi del microbiota intestinale (He and Li, 2020) e le alte concentrazioni compensatorie di insulina (iperinsulinemia) svolgono un ruolo chiave nella patogenesi della PCOS (Balen 2014; Diamanti-Kandarakis 2010).
Negli ultimi anni c’è un crescente interesse per gli effetti degli integratori alimentari e delle terapie dietetiche a basso contenuto di carboidrati e chetogenica,, insieme agli interventi sullo stile di vita per ottimizzare il peso e l’insulinoresistenza delle donne con PCOS (Teede et al., 2011).
Sulla base di queste indicazioni, è stato verifi cato l’effetto di un protocollo standardizzato di terapia dietetica ciclica (chetogenica e low carb), su 60 donne affette da PCOS.
Il protocollo di trattamento prevedeva un regime alimentare della durata totale di 6 mesi, durante i quali si alternavano due piani dietetici: una dieta chetogenica da seguire per 21 giorni, quindi una dieta low-carb da seguire nei successivi 20 giorni, per poi ricominciare ciclicamente.
Dopo 6 mesi di ciclicità dietetica abbiamo verificato il recupero del ciclo mestruale, riduzione della quantità di FM (Fat Mass, massa grassa) e un aumento significativo della vitamina D con una riduzione lineare dell’indice HOMA, una riduzione significativa dei rapporti Colesterolo TOT/HDL e LDL/HDL. Anche dal punto di vista infiammatorio la dieta ciclica ha dimostrato una rilevante efficacia con riduzione della VES, dell’omocisteina e in particolare del numero di follicoli ovarici.
I risultati del nostro studio suggeriscono che l’impiego di una terapia dietetica ciclica a basso apporto di carboidrati possa garantire importanti successi su diversi aspetti tipici della sindrome dell’ovaio policistico migliorando l’insulino-resistenza con conseguente riduzione dei follicoli ovarici e recupero del ciclo mestruale.
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