Da diversi mesi ormai in sede di Comitato Scientifico ISSA stiamo affrontando il tema della longevità e dell’invecchiamento “sano”: se l’arco vitale della specie umana, così come quello di tutte le altre specie animali, prevede infatti un naturale decadimento dell’organismo e una fase della vita che chiamiamo “grande età”, è però innegabile che tale fase sia spesso connotata da una serie di patologie che molti associano automaticamente al processo di invecchiamento. Uno tra gli errori concettuali più comuni, spesso anche tra la classe medica. Non è automatico che il processo di invecchiamento debba comportare tutta la serie di acciacchi o patologie vere e proprie che vi associamo: sindrome metabolica, sarcopenìa, diabete, alterazione cronica della pressione e tutti gli altri flagelli che privano le persone anziane della dignità e del piacere dell’autonomia. Negli animali, da tempo sono noti due parametri che vengono ben studiati, soprattutto grazie alle popolazioni di specie minacciate ospiti nei bioparchi: la cosiddetta longevità effettiva e la longevità POTENZIA LE MASSIMA di ogni specie. Il primo parametro è definito come il valor medio dell’aspettativa di vita di un campione di individui che vivono in natura: per ricavarlo sarà necessario annotare l’età della morte di un numero sufficiente di soggetti “selvatici” di una specie, per poi ricavare una me dia di popolazione. Il secondo parametro invece si ottiene dalla media dell’età al momento della morte di un numero statisticamente significativo di individui ospiti in centri per la fauna selvatica e bioparchi.

Gli animali in natura muoiono per predazione, per malattia, a causa di ferite e infezioni non trattate, spesso di fame o di sete. La situazione nei giardini zoologici invece è piuttosto simile a quella delle società umane tecnologiche: la probabilità di incidenti, combattimenti e predazionsticate in tempo, grazie a sofisticati screening effettuati periodicamente su ogni animale ospite di una struttura, la fame e la sete sono incubi che nessun animale in cattività ha mai sperimentato. Infine, la chirurgia e la medicina degli animali esotici hanno fatto passi da gigante. Questo ci restituisce un quadro interessante, in cui la “forbice” tra longevità effettiva in natura e longevità potenziale massima è notevole: uno scimpanzé in cattività ha una aspettativa di vita attorno ai quarant’anni. In natura la aspettativa di vita è di 15-25. Lo scimpanzé più longevo in assoluto, una femmina di nome Little Mama, visse in cattività per 78 anni, conteggiati dal momento che giunse allo zoo dopo essere stata catturata in natura: la sua età effettiva è sconosciuta, ma il suo record di longevità è spaventoso anche solo in relazione al dato medio di longevità della specie in cattività. Lo stesso parallelismo può essere fatto tra la longevità umana nei tempi antichi e longevità potenziale moderna: la medicina, la chirurgia, il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, sono tutte cose che allargano la forbice. Una differenza con gli animali ospiti degli zoo tuttavia, c’è: ed è enorme. Quasi tutti gli animali senior ospiti degli zoo sono in buone condizioni di salute e con pochissimi acciacchi, quasi fino alla fine delle loro esistenze. Sono poche le specie per le quali vi siano record di degenerazioni cliniche e malattie “da terza età”.

Nell’uomo invece queste sono comunissime. Perché? Semplicemente perché gli animali nei parchi sono costantemente monitorati, i loro pasti sono sani, equilibrati e obesità e noia sono tenute sotto controllo con attività fisica e arricchimento ambientale personalizzato che permette a ciascunaspecie di attuare i comportamenti che l’animale svolgerebbe anche in natura. Gli animali nei bioparchi moderni vengono tenuti in esercizio e laloro qualità della vita viene salvaguardata da staff dedicati. Per questo molti di loro raggiungono età avanzate in condizioni di salute generali più che egregie. Possiamo dire lo stesso della nostra specie? Purtroppo no. Nonostante la medicina e le condizioni ambientali siano molto migliorate negli ultimi tre secoli, gli stili di vita, l’alimentazione, l’esercizio fisico spesso non sono assolutamente coerenti con la qualità delle prestazioni assistenziali che vengono messe in campo DOPO. Una volta che l’anziano ha cominciato a manifestare problemi. Per questo si tende a riparare i danni, anziché prevenirli. E riparare i danni dopo una vita di mancanza di esercizio fisico, di assunzione di alimenti e sostanze nocive, di scarsa qualità del sonno e di stili di vita distruttivi marca la differenza tra la longevità effettiva e quella potenziale. Questo è il paradigma che dobbiamo cambiare. Per assurdo, possiamo affermare che i limiti di longevità poten ziale di molte specie animali sono stati studiati meglio e conosciuti in modo più approfondito di quelli relativi alla nostra specie: sappiamo che l’aspettativa media di vita di un ratto selvatico in natura è di un anno circa, quella di un ratto da laboratorio è più del doppio: due anni e mezzo; ma non sappiamo quale sia l’aspettativa di vita potenziale di Homo sapiens perché, nonostante tale parametro sia in costante ascesa nel corso degli ultimi cinque secoli, le malattie del progresso negli ultimi cinquant’anni lavorano continuamente ad eroderlo. Lo studio delle popolazioni di centenari della Barbagia, così come quelle delle comunità insulari del Giappone ci stanno aiutando a districare la complessa trama di componenti genetiche e ambientali che potrebbero essere alla base di popolazioni longeve, ma al momento gli unici elementi di sovrapposizione delle diverse comunità umane longeve sembrano ricondurre a un solo fattore comune: la dieta è diversissima, le usanze pure, ma tutte le comunità studiate sono composte da persone che hanno LEGAMI SOCIALI SOLIDI E SVOLGONO UNA VITA FISICAMENTE ATTIVA, con attività quotidiane, di diversa intensità (pesca, agricoltura, raccolta, pastorizia), ma costanti. Il che ci riporta alla seconda parte del nostro articolo, quella che io ho chiamato la Maledizione della Palestra: sebbene praticamente tutti siano ormai concordi che l’esercizio fisico rappresenti la chiave di volta per la riduzione delle patologie degenerative e delle malattie metaboliche nella grande età, molti trovano semplicemente insostenibile mantenere una frequenza regolare con la palestra: buona parte della de-motivazione, a mio parere, è causata dalla noia.
Il completamento della stessa sequenza di esercizi tre volte alla settimana, con la sequenza di accesso alle stesse macchine o l’esecuzione degli stessi movimenti, con l’unica variante possibile relegata all’aumento dei carichi, scatena la noia e l’avversione per la palestra. Anche se seguito dal migliore dei personal trainer, il cliente finisce per aspettare le scadenze di verifica dei risultati ottenuti con una sola speranza: che il trainer gli cambi gli esercizi, e non si limiti ad aumentare i carichi. Come ci si salva dalla Maledizione della Palestra? Ancora una volta guardando al mondo naturale.
Gli animali selvatici, pur vivendo vite relativamente abitudinarie, pur frequentando gli stessi luoghi per cacciare, bere, riposare, svolgere attività sociali, alternano ogni giorno attività diverse. Lo stesso fanno da secoli le comunità di uomini ultracentenari: la giornata di un pastore della Barbagia può sembrare immutabile ad un cittadino milanese, ma ogni giorno è scandito da attività sempre diverse, da fatica fisica di intensità e durata differente. E da piccole soddisfazioni, ogni giorno diverse. C’è un nome che possiamo dare a questa rivoluzione, quando la vediamo svolgersi in una palestra, ed è ALLENAMENTO A CIRCUITO. L’allenamento randomizzato a circuito è tornato alla ribalta negli ultimi dieci anni in relazione a nuove ricerche sui benefici sulla longevità e sulla riattivazione neurocognitiva in pazienti senior: potrebbe essere la cura per la Maledizione della Palestra. Torneremo sull’argomento dell’allenamento a circuito nel prossimo numero.

 

Simone Masin, Msc, PhD. M.ES Università Bicocca di Milano

 



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