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Osteoporosi: prevenire è meglio che curare

“Un certo grado di perdita d’osso è inevitabile con l’avanzare dell’età, fa parte cioè della condizione umana, al di là del sesso, della razza, del clima o della dieta.”.

 

Nell’affermazione “prevenire è meglio che curare” si inserisce anche la necessaria prevenzione rivolta verso il fenomeno osteoporotico: non dimentichiamo infatti che un osso fragile è preda di fratture anche per traumi relativamente lievi.

 

Nel volume Osteoporosi della Mayo Clinic, edito dalle Edizioni Sporting Club Leonardo da Vinci, (Fig.1), che abbiamo personalmente curato nell’edizione italiana, il concetto di prevenzione viene ampiamente enfatizzato proprio perché comporta l’intervento di più soggetti, non necessariamente medici, che possono contribuire al benessere delle nostre ossa, senza dimenticare mai però che il principale artefice di questo percorso virtuoso siamo noi stessi.

 

La prevenzione dell’osteoporosi quindi potrebbe essere definita il raggiungimento e mantenimento di una quantità sufficiente di osso, la cui resistenza sia adeguata agli sforzi a cui può normalmente essere sottoposto l’organo ad ogni età. Non dimentichiamo infatti che la massa ossea in età avanzata è determinata dal picco raggiunto alla maturità scheletrica e solo dopo dalla successiva velocità di perdita.

È corretto dire che il nostro sistema scheletrico diventa forte quando siamo piccoli e giovani e tanto più resteremo in salute se questo obiettivo è stato raggiunto e consolidato.

La prevenzione primaria dell’osteoporosi si può suddividere in diverse fasi che corrispondono agli stadi di aumento e perdita netta di osso.

 

In questo sistema va inserito anche un approccio terapeutico inteso a controllare, sin dove è possibile, l’effetto secondario derivante da altre malattie metaboliche che inducono osteoporosi secondaria.
La “prevenzione secondaria” comprende tutte quelle misure per diminuire un ulteriore decadimento in quei pazienti già definiti osteopenici, o peggio osteoporotici, e quindi in poche parole tutti i tentativi sono volti al rallentamento dell’evoluzione della malattia stessa.

 

Quando si parla di prevenzione ci si affida quasi sempre a dati statistici che implicano la predizione dell’accadimento di un evento: come per altre
forme morbose, l’osteoporosi primaria può quindi essere predetta in una percentuale statistica di una determinata popolazione, mentre nulla si può
dire con certezza per il singolo individuo.

 

Nell’ambito femminile la terapia sostitutiva ormonale è parsa per decenni come elemento cardine per prevenire l’accelerazione peri-menopausale di perdita di calcio: la domanda che via via i ricercatori si posero era se tutte le donne in menopausa avrebbero dovuto essere trattate con gli estrogeni.

 

Gli studi statistici hanno dimostrato che tale approccio non era positivo perché la terapia indiscriminata con ormoni aumentava in modo significativo l’incidenza del tumore al seno (Marcelli C. 2000).

 

Nello stesso tempo emergevano delle difficoltà di adesione al trattamento, specie in quei soggetti che avevano ancora valori di densità ossea nei range, o appena sotto, di normalità.
Ulteriore problema era anche il fatto che in numerosi paesi, specie quelli extraeuropei, il trattamento era economicamente a carico dell’utente finale e quindi più che di educazione sanitaria si doveva parlare di economia sanitaria, stante i costi complessivi che emergevano da trattamenti di durata medio-lunga.

Non ultimo il fatto che il trattamento ormonale doveva essere monitorato con attenzione perché, ad esempio, favoriva la tendenza a fenomeni trombo-embolici, specie in soggetti portatori di ipertensione o di tabagismo.

Alla fine questo tipo di approccio è stato abbandonato perché il rapporto costo-beneficio era negativo.

 

Grande importanza è stata data giustamente alla componente alimentare e quindi sostanzialmente all’apporto di calcio tramite gli alimenti.

Un mezzo apparentemente semplice utilizzato in alcuni paesi anglosassoni è stato quello di utilizzare farine per panificazione integrate con carbonato di calcio.
Facendo ciò si era pensato di assicurare anche agli strati di popolazione meno agiata, per la quale il pane è un componente essenziale nella dieta, l’apporto di una supplementazione calcica indipendentemente dal resto della dieta in generale (Osler M. e coll. 1998). Ampio spazio di dibattito è l’implementazione di latte e derivati nella dieta quotidiana.

 

È risaputo come questi alimenti siano ricchi di calcio, ma per la ridotta tolleranza al lattosio che fisiologicamente si presenta nell’adulto e per l’aumento della quota di grassi presenti nei formaggi, oltre che notizie di un possibile aumento dell’incidenza di tumori, specie nell’assunzione di latte, portate alla ribalta da conosciuti ortoressici personaggi, hanno fatto sì che ci sia attualmente in Italia un dibattito che non si svolge nelle sedi istituzionali ma piuttosto sui social network che, come si sa, sono un immenso immondezzaio di bufale e notizie senza alcun valore.

 

 

 

È indubbio comunque che gli alimenti, specie le verdure ricche di calcio, sono da preferire nella dieta mediterranea che dovrebbe essere la base della nostra nutrizione oltre a dire che il latte e derivati sono alimenti sicuri scientifico (Thorning TK e coll. 2016).

Un’altra misura, che potremmo chiamare di sanità pubblica, è quello di indurre la popolazione femminile, ma in genere tutta la popolazione, ad assumere acqua ricca di sali di calcio.
Mentre all’estero tale pratica è difficile perché l’utilizzo delle acque minerali è meno presente sulla tavola rispetto a quella degli italiani, bevendo un litro di Ferrarelle al giorno si introducono 441 mg di calcio (dati tratti da http://www.ok-salute.it/alimentazione).

 

 

Si capisce quindi come quello che viene spesso considerato come una bizzarria tipica italiana, quella di preferire all’acqua del rubinetto quella comperata nella grande distribuzione, in realtà ha dei pregi inequivocabili. Su questo argomento i dati epidemiologici dimostrano come, specie in Gran Bretagna, ci siano state delle polemiche dato che in certe zone del Paese, l’acqua di falda era ricca di calcio ma aveva poi rivelato essere ricca anche di altre sostanze inquinanti provenienti dai fertilizzanti azotati utilizzati nei campi e quindi il beneficio era tutto da dimostrare, se non addirittura aumentava il pericolo di introduzione di inquinanti.

 

Altro interesse, legato alla prevenzione dell’osteoporosi, che ha suscitato però più controversie che consensi, è stata l’aggiunta nelle bevande di sali di fluoro unitamente al fatto che tale metodica avrebbe migliorato anche la salute dentaria (Simonen O. 1985).

 

L’integrazione di fluoro con gli alimenti è stata affrontata anche in Italia più volte e i più vecchi di noi si ricordano come per un certo periodo alle scuole elementari veniva somministrata una pastiglietta di fluoro da succhiare: metodologia che è stata poi abbandonata per il fatto che gli effetti sono calcolabili sulla lunghissima distanza e quindi non suscettibili di verifiche cogenti che potessero eliminare eventuali dubbi su tale supplementazione.

 

 

Se si vanno a vedere i dati della letteratura in studi ampi condotti su popolazioni finlandesi e su alcune in Gran Bretagna (Ansell BM. 1966), la fluorurazione dell’acqua è stata studiata più in rapporto alla diminuzione delle carie dentarie, facilmente riscontrabile come dato, piuttosto che sulla densità ossea, che avrebbe necessitato metodologie complesse, intollerabili come metodo di indagine.
Possiamo quindi dire che l’integrazione di fluoro rimane un problema aperto e sicuramente dedicato all’apparato masticatorio più che a quello osseo.
Di grande importanza nella prevenzione primaria, ma anche in quella secondaria, è l’esercizio fisico (Wang L. 2016).

 

 

Lo sport, e in genere il movimento, agisce sulla struttura delle ossa con degli stimoli di natura vibratoria che inducono il rimodellamento, ovvero la sostituzione di matrice ossea scadente con matrice ossea nuova e più compatta.
Ciò è di grande importanza specialmente nella popolazione giovane, che può consolidare ed elevare il famoso picco utilizzando al meglio la dinamica degli esercizi ed elevando quindi quel valore soglia che si stabilisce intorno ai 35-40 anni di età, per poi mantenersi stabile nel tempo e venire investito dalla tempesta ormonale menopausale nella donna e dalla senectus nell’uomo.
Come appunto si diceva, si può combattere l’osteopenia e l’osteoporosi specie da giovani, facendo sì che le nostre ossa abbiano una densità calcica eccellente e garantendo quindi una vita da senior più serena e “meno traumatica”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Silvano Busin Direttore Scientifico ISSA Europe

 

 

 

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