Uno studio condotto dal Kuny Lehman College di New York e pubblicato sul Journal of Strength & Conditioning Research ha rilevato che l’allenamento completo praticato tre giorni la settimana è migliore rispetto all’allenamento “spezzato”, enfatizzando cioè un gruppo muscolare una volta la settimana durante un ciclo di allenamento sempre di tre volte.

 

L’idea di base di questa diversificazione della routine completa è che permette all’atleta di allenare gruppi muscolari specifici più intensamente e allo stesso tempo di mantenere l’impegno di tempo dedicato all’attività fisica su cui si basa la propria scelta di allenamento. Molti bodybuilder ritengono che solo in questo modo si possa favorire l’ipertrofia muscolare, la performance e prevenire l’overtraining.

 

Lo studio in oggetto ha al contrario dimostrato che coinvolgendo tutti i gruppi muscolari in maniera più frequente si ottiene una maggiore ipertrofia. Tutto ciò vale sicuramente per soggetti relativamente non allenati e quindi non è trasportabile su bodybuilder avanzati, che hanno una diversa preparazione. Gli autori però ritengono che anche per questi ultimi l’allenamento “isolato” abbia solamente la funzione di definire meglio la muscolatura.

 



 

Uno studio clinico in doppio cieco randomizzato e controllato contro placebo, condotto da scienziati dell’Università di Edimburgo e pubblicato sull’ International Journal of Cosmetic Science ha dimostrato che un adeguato mix di supplementi dietetici può migliorare significativamente l’aspetto delle rughe presenti sul viso. È stato somministrato un cocktail anti-age tenendo conto di ingredienti già ritenuti efficaci nell’influenzare fattori chiave dell’invecchiamento cutaneo, quali l’infiammazione, la sintesi di collagene e lo stress ossidativo, o da radiazioni UV.

 

I ricercatori hanno preparato una soluzione contenente isoflavoni della soia, licopene, vitamina C, vitamina E, l’hanno miscelata a olio di pesce e somministrata in capsule a donne in post menopausa. È risultato che nelle donne che avevano assunto l’integratore la profondità delle rughe sul volto si è ridotta significativamente ed era anche associata ad un incremento della deposizione di nuove fibre collagene a livello del derma.

 

Al di là dei singoli componenti e delle dosi, il risultato importante di questo esperimento è la dimostrazione che l’assunzione prolungata di un prodotto contenente sostanze antiossidanti risulta associata alla deposizione di nuove fibre collagene nel derma e a un miglioramento della profondità delle rughe facciali clinicamente misurabili.

 



 

Un programma di attività fisica a intensità più elevata potrebbe portare ad una importante riduzione del rischio di morte per qualsiasi causa nelle donne anziane: è l’ipotesi proposta su uno studio pubblicato sulla rivista Circulation dalla prestigiosa Harvard University di Boston.
La ricerca è tra le prime ad esaminare l’attività fisica non tramite dati riferiti dal paziente, ma mediante la misurazione con un dispositivo portatile, chiamato accelerometro triassiale, e un esito clinico.

 

Il dispositivo è in grado di misurare l’attività su tre piani e consente di ottenere informazioni più precise. I ricercatori hanno seguito più di 17.000 donne, con età media pari a 72 anni, chiedendo loro di indossarlo per sette giorni durante le ore di veglia.

 

Utilizzando specifici metodi statistici si è valutata l’intensità della attività fisica durante il monitoraggio e la sopravvivenza durante il follow up di circa due anni e mezzo sul gruppo testato. I risultati hanno mostrato che l’attività fisica da moderata a vigorosa si associa ad un rischio di morte inferiore dal 60 al 70% tra le donne più attive rispetto a quelle meno attive.

 

Attività fisica di intensità leggera o comportamento sedentario non migliorano gli indici di sopravvivenza. Gli autori hanno comunque sottolineato che anche quest’ultimo risultato non significa che l’attività fisica leggera non sia utile per raggiungere altri obiettivi di salute, non studiati in questa occasione, ma confermano che maggiore è l’attività fisica, compatibile con lo stato di salute del soggetto, migliori sono i risultati. Gli esercizi consigliati prevedevano la camminata veloce, la bike o la combinazione tra attività aerobica ed esercizi di potenziamento muscolare.

 

[Lee IM e coll. Accelerometer-Measured Physical Activity and Sedentary Behavior in Relation to All-Cause Mortality: The Women’s Health Study. Circulation. 2018 Jan 9;137(2):203-205]

 



 

Maggiore è il grasso corporeo in età adulta, maggiori saranno i disturbi cardiovascolari nel senior. I disturbi possono essere una stenosi delle carotidi, aumento della pressione arteriosa sistolica, aumento del rischio di diabete e della sindrome metabolica. In un articolo pubblicato su The Lancet Diabetes and Endocrinology emergono i risultati di uno studio sull’impatto delle variazioni ponderali sui fattori di rischio cardiovascolare in un gruppo di uomini e donne inglesi, seguiti fino ai tempi nostri dalla loro nascita nel marzo 1946.

 

I ricercatori che si sono succeduti nell’Università di Londra hanno analizzato i dati di 1200 soggetti e hanno fatto emergere la novità che gli adulti che perdono peso in un qualsiasi momento della vita, passando da obesi a sovrappeso o da sovrappeso a normopeso, riducono gli effetti avversi cardiovascolari anche se successivamente riguadagnano i chili persi.

 

Tutto ciò significa che la valutazione dell’effetto dell’adiposità nella vita reale indica che la perdita di peso a qualsiasi età porta benefici cardiovascolari a lungo termine, il che dovrebbe migliorare le strategie di intervento della Sanità pubblica, indirizzata a modificare gli stili di vita non corretti. L’unica constatazione negativa è che ancora una volta solo in una piccola parte di partecipanti si è verificato un significativo calo ponderale in età adulta, con il mantenimento dello stesso.

 



 

Le erbe medicinali cinesi possono rallentare la trasformazione di pazienti ad alto rischio di “pre-diabete” in diabete conclamato? La risposta parrebbe positiva, almeno secondo uno studio pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism da parte di ricercatori dell’Università di Chicago che hanno studiato soggetti che presentavano livelli non conformi di glicemia, ma non tali da poter definire in atto il diabete di tipo II.

 

Dal punto di vista epidemiologico i “pre-diabetici”, che sarebbe meglio chiamare come portatori di ridotta sensibilità all’insulina, hanno dimostrato un rischio maggior di sviluppare ovviamente la malattia, nonché patologie cardiache e vascolari. Secondo Diabets Care negli USA circa 80 milioni di adulti americani hanno una ridotta tolleranza agli zuccheri e ciò nonostante hanno difficoltà a modificare lo stile di vita. Anche l’utilizzo preventivo della metformina non ha ottenuto il consenso completo da parte della comunità scientifica.

 

Gli studiosi hanno sviluppato uno studio multicentrico con cinque grosse università cinesi, randomizzando 4.000 soggetti con alterata tolleranza al glucosio e somministrando loro una dose standard di una combinazione di dieci erbe medicinali cinesi. Il gruppo di controllo, altrettanto numeroso, aveva assunto invece del placebo: il tutto per 12 mesi.

 

I risultati epidemiologici al termine del periodo di follow-up hanno dimostrato che lo sviluppo del diabete di tipo II è stato significativamente minore nei pazienti trattati con erbe medicinali rispetto al gruppo di controllo. In attesa di conferme da studi su casistiche più ampie e per tempi più lunghi i ricercatori statunitensi sono però convinti che questa combinazione di erbe medicinali possa essere una ulteriore strategia per prevenire il diabete di tipo II.

 


 

 

Sulla prestigiosa rivista JAMA viene riportato l’annuncio che la Food & Drugs Adiministration (FDA) ha approvato un medicinale, l’acido desossicolico, per ridurre il tessuto adiposo sottomentoniero. Il medicinale è iniettato direttamente nel deposito di grasso sotto il mento e si è dimostrato capace di metabolizzare lo stesso e di diminuire la quantità attraverso un meccanismo che distrugge le membrane cellulari che circondano le cellule adipose, rilasciando quindi il contenuto di trigliceridi nel sangue, dove viene poi metabolizzato. Negli USA qualsiasi medico può eseguire la procedura, ma viene consigliato di rivolgersi al chirurgo plastico o al dermatologo estetico per ottenere i migliori risultati.

 

Il trattamento, tra le alte cose, ha pochi effetti collaterali, tra cui una modesta infiammazione temporanea nella parte dove viene eseguita l’iniezione. Il recupero inoltre dovrebbe essere più veloce rispetto a quello richiesto con la liposuzione normale. Attualmente il farmaco è approvato solo per l’uso limitato all’area sottomentoniera, ma è logico pensare che prima o poi verrà utilizzato anche in altre parti. Particolare curioso di questo articolo è che i ricercatori consigliano comunque di condurre sempre una buona alimentazione e un esercizio fisico adeguato.

 



 

Il consumo abituale di caffè si conferma positivo per la salute cardiovascolare. In una metanalisi pubblicata sull’European Journal of Nutrition, firmata da ricercatori dell’Università di Napoli, che ha valutato studi su un numero di circa 200.000 tra uomini e donne, seguiti per periodi di tempo compresi da un minimo di 3 ad un massimo di 33 anni, è emersa una associazione positiva tra assunzione quotidiana della bevanda e riduzione dell’incidenza di ipertensione arteriosa. Nel dettaglio, l’effetto protettivo assume significatività statistica a partire da tre tazze di caffè al giorno mentre non è significativa per consumi inferiori.

 

Gli autori sottolineano che il tipo di caffè assunto dai partecipanti alle ricerche era ottenuto per filtrazione (il cosiddetto caffè americano) e non da moka o macchine espresso, più tipici delle abitudini italiane.

 

Precisano altresì che anche altre ricerche precedenti, focalizzate sulle diverse preparazioni di caffè popolari nel mondo, hanno dimostrato la sostanziale sovrapponibilità dei risultati ottenuti con le diverse tipologie della bevanda. Sono stati ipotizzati anche i possibili meccanismi alla base di queste osservazioni, non sempre intuitivi. La caffeina, ad esempio, determina un incremento soltanto a breve termine della pressione nei soggetti ipertesi, ma non in quelli che sono consumatori abituali di caffè.

 

Pur tuttavia esercita anche un effetto blandamente diuretico e facilita anche l’eliminazione di sodio con le urine. Inoltre, potassio, magnesio, polifenoli (tra cui l’acido clorogenico e i suoi metaboliti) e fibre solubili contenuti nel caffè contribuiscono all’equilibrio pressorio attraverso vari meccanismi: antinfiammatori, vasodilatanti, miglioramento della sensibilità insulinica e quindi controllo del metabolismo glucidico.

 

A quest’ultimo effetto potrebbero concorrere sia la presenza di un fitoestrogeno, che modula in positivo il metabolismo degli zuccheri ed ha una modesta funzione ACE-inibitrice sia la riduzione del numero di cellule adipose che sembra associarsi al consumo abituale di caffè. In conclusione, anche se non è possibile stabilire una correlazione di tipo causa-effetto, sulla base dei dati disponibili è  invece del tutto ragionevole sostenere che il consumo abituale di caffè da parte della popolazione generale adulta ha un effetto favorevole sulla salute cardiovascolare e, nello specifico, sul profilo pressorio.

 

[D’Elia L. e coll. Coffee consumption and risk of hypertension: a dose-response meta-analysis of prospective studies. Eur J Nutr. 2017 Dec 8. doi: 10.1007/ s00394-017-1591-z]

 



 

Sono sempre più dettagliate e confortanti le conferme a favore della dieta mediterranea.
In una importante metanalisi, coordinata dall’Università di Milano, che ha preso in considerazione le 29 ricerche di maggior rigore metodologico pubblicate negli ultimi dieci anni, sono stati valutati i benefici derivanti dall’aderenza alla dieta mediterranea.
Lo studio, pubblicato sull’European Journal of Nutrition dimostra come questa condotta alimentare aumenta la protezione cardiovascolare nei confronti delle malattie e degli eventi acuti su base ischemica (soprattutto ictus e infarto cardiaco).

 

L’adesione appunto alla dieta mediterranea è stata valutata in base a punteggi prestabiliti e condivisi che considerano la frequenza di consumo degli alimenti fondamentali in uno schema definito: cereali integrali, legumi, frutta fresca, frutta oleosa, ortaggi, pesce, olio extravergine di oliva come principale condimento. Da non dimenticare inoltre un consumo moderato di latte e latticini, piccole quantità di alcol ai pasti, carni e derivati.

 

L’analisi dell’importante messe di dati ha confermato che nel gruppo che seguiva regolarmente una dieta di tipo mediterraneo il rischio complessivo di malattie cardiovascolari risultava ridotto del 20-25%, senza differenze tra i due sessi, rispetto a coloro che mangiavano in modo differente.

 

In dettaglio si è messa in luce una associazione di tipo dose-dipendente e lineare tra adesione alla dieta mediterranea e protezione vascolare: la maggiore protezione è stata infatti rilevata negli studi condotti su popolazioni che vivono sulle sponde del Mediterraneo, ma anche nei soggetti che vivono altrove ma che comunque seguono questo tipo di alimentazione. Tutto ciò è attribuibile all’apporto di nutrienti in grado di svolgere una significativa azione di protezione cardiovascolare: grassi insaturi, carboidrati complessi, fibre, folati, flavonoidi, polifenoli, vitamine C ed E, minerali quali potassio e magnesio. Un punto da approfondire, secondo gli autori, è la mancata riduzione del rischio di ictus emorragico, che appare presente in termini di morbilità in tutti i vari tipi di dieta e che dovrà essere oggetto di ulteriori studi.

 

[Rosato V e coll. Mediterranean diet and cardiovascular disease: a systematic review and meta-analysis of observational studies. Eur J Nutr. 2017 Nov 25. doi: 10.1007/s00394-017-1582-0.]

 

 

 

 

a cura del Comitato Scientifico ISSA Europe

 

 

 

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